Prendersi cura dell’altro
Don Alberto Cinghia, curato di Sarezzo, è il nuovo parroco di Zanano-Noboli. Succede a don Cancarini
Il suo trasloco è nello stesso Comune. Don Alberto Cinghia, dal 2015 curato di Sarezzo, è il nuovo parroco di Zanano-Noboli, due frazioni del Comune saretino. Succede a don Cesare Cancarini. Don Alberto, classe 1959 e ordinato nel 1987, nel corso del suo ministero sacerdotale ha svolto i seguenti incarichi: curato alla Badia (1987-1994); curato a Mompiano (19994-1998); parroco di Borgonato (1998-2007); parroco di Bovegno (2007-2015). Nella sua vita ha provato anche l’esperienza della malattia che l’ha portato a rinunciare alla guida della parrocchia per tornare a fare il curato. Oggi, visto che la salute lo sorregge, ha accettato questa nuova sfida. L’abbiamo raggiunto telefonicamente a Pinarella di Cervia durante il camposcuola.
Don Alberto, con quale spirito si prepara a questo nuovo incarico?
Spero di riuscire a svolgere bene il ruolo di sacerdote al servizio della Chiesa. Avevo dato le dimissioni da Bovegno nel 2015 per problemi di salute ma adesso sto abbastanza bene. Mi appresto a iniziare con umiltà. Davanti a me c’è l’immagine del Buon Pastore che mi piacerebbe diventasse sempre più concreta per la mia esperienza sacerdotale. Ho in mente l’immagine del buon samaritano con tutti gli atteggiamenti che questo comporta. Qui sarà più facile perché troverò una parrocchia avviata. È importante mettersi in ascolto reciproco, in ascolto della Parola per poi mettere in atto una pastorale, da condividere con tutti i parrocchiani, adatta ai tempi di oggi.
Cosa ha imparato in questi anni? In cosa pensa di essere migliorato?
Ho imparato a fidarmi del Signore. Consegnando a Lui la mia vita, mi sono accorto che me l’ha restituita con una provvidenza abbondante. Anche in questi tre anni di malattia mi ha accompagnato molto. Ho imparato a essere sempre più servo del Signore: non siamo noi a salvare il mondo, ma la centralità della presenza di Gesù nella Chiesa deve essere percepibile. Ho imparato, un po’ come dice papa Francesco, a fidarmi meno delle strutture organizzative per una Chiesa che sappia essere più profetica e missionaria. Ogni sacerdote ha un suo cammino spirituale che matura insieme alla comunità e poi offre alla stessa.
C’è un passo del Vangelo che le piace sottolineare?
Se guardo alla mia esperienza, ho sempre voluto coltivare l’immagine delle due sorelle, Marta e Maria. Mi ha sempre affascinato la capacità di coniugare la preghiera, l’ascolto e la meditazione con un’attività in cui ci si sporca le mani. Sono due pilastri importanti. Bisogna coltivare la preghiera e dall’altra parte bisogna prendersi cura. Sono percorsi, questi, che valgono anche per gli uomini di oggi.
Permane la difficoltà di conciliare nella stessa parrocchia i diversi gruppi che animano la comunità…
È una delle difficoltà che viviamo nelle comunità cristiane. Nelle comunità parrocchiali il prete è sempre stato percepito come un amministratore attivo. Questo va, però, a scapito della maturazione di una stessa comunità. I parrocchiani devono sentirsi protagonisti nella missione della Chiesa. Il prete che resta più a lungo in chiesa non sta perdendo tempo ma sta vivendo la sua vocazione.
Ha vissuto dal 2007 al 2015 a Bovegno dove c’è il santuario della Misericordia. E oggi abbiamo, in ogni settore, sempre più bisogno di avere uno sguardo misericordioso...
Lì ho imparato il clima del silenzio e del raccoglimento. Percepivo la presenza di Dio e della Madonna nell’ascolto del silenzio. Quando sono diventato prete, ho iniziato nella parrocchia Madonna del Rosario (Villaggio Badia), a Bovegno ho trovato la Madonna della Misericordia e adesso arrivo nella parrocchia intitolata alla Madonna Regina della Pace. La presenza della Madonna mi accompagna.
Una comunità è pienamente comunità quando fa sentire meno soli gli ammalati...
Per l’esperienza vissuta da ammalato, il sacerdote deve sempre avere una preghiera per gli ammalati e gli ammalati devono sapere che il loro sacerdote prega per loro. Bisogna formare i ministri dell’eucaristia che sono chiamati a vivere di più il rapporto con gli ammalati. C’è bisogno di un gruppo che si prenda cura di chi soffre. Il sacerdote deve avere sempre presente la malattia ma anche le sensazioni vissute da chi soffre, perché vengono meno le energie e le sicurezze.
Arriva in una comunità di 3000 abitanti con una forte identità… Quali saranno i primi passi?
Rendere grazie al Signore insieme a tutta la nuova comunità, mettersi in ascolto e celebrare la Messa. I parroci che mi hanno preceduto hanno lavorato molto bene. Cerco di propormi con semplicità, tenendo presente che il prete annuncia per tutti il Vangelo.