Il talento tra basket e immagini
Marco Palumbo, oggi fotografo affermato, racconta i suoi anni da protagonista con la Pinti Inox. Con un suo canestro salvò il Brescia dalla retrocessione
Dal canestro alla fotografia. Marco Palumbo, che è nato a Ferrara ma vive a San Zeno da parecchi anni, è un ex giocatore professionista di basket, ha giocato per tanti anni (1977-1981 e 1984-1989) nel Brescia quando si chiamava Ocean, Filodoro e Pinti Inox. Per una serie di coincidenze il basket in città è tornato in voga anche grazie a due sponsor proprio di San Zeno: Germani e Mazza. Marco, classe 1956, ora è un fotografo di moda. Nel Brescia ricopriva il ruolo di playmaker, il regista, il giocatore che porta la palla vicino all’aerea avversaria prima di smistarla ai compagni…
Come si è avvicinato al basket?
Il basket l’ho respirato fin da bambino. Mio papà era allenatore dell’attuale Reyer Venezia, la mia passione nasce da lì e l’ho trasmessa a mio figlio che gioca per la Germani.
E l’esordio?
Giocavo a Mestre ed ero un giovane aggregato alla prima squadra. La partita sta finendo e il mio allenatore mi dice: “Palumbo entri”. I miei compagni avevano tutti cinque falli, toccava a me. Entro e all’ultimo minuto faccio un canestro e vinciamo la partita. L’allenatore della squadra avversaria è Sales che l’anno dopo mi vuole a Brescia.
Ha un aneddoto da spogliatoio da raccontarmi?
Un giorno finito l’allenamento decido di fermarmi un po’di più per provare dei tiri funambolici per divertirmi. Entro negli spogliatoi e Taurisano, che era il coach, mi dice: “Questi tiri li fai all’oratorio”. La domenica successiva grazie a uno di questi tiri funambolici vincemmo la partita contro la Cagiva Varese e ci salvammo.
Facciamo il quintetto base a cui è più affezionato?
Bill Laimbeer, Palumbo, Spencer Haiwood, Silvano Motta e Giordano Marusic.
Ha giocato con Solfrini e Mike Mitchell, che cosa ricorda di loro?
Marco era veramente un amico, ci sentivamo spesso e per scherzare gli dicevo che ormai doveva smettere perché era “vecchio” per giocare. Aveva doti fisiche impressionati, era insuperabile. Quest’estate ci troveremo per una partita tra ex compagni per ricordarlo. Mike Mitchell era mitico: “un cecchino”. Arrivava dalla Nba grazie ai procuratori che, in quegli anni, cominciavano a girare intorno al mondo del basket. Era fortissimo. Se n’è andato qualche anno fa a causa di un male incurabile, era tornato a vivere nel Texas.
Segue ancora il basket?
Certo che sì… soprattutto ora che la Germani è tornata in auge.
Nel suo futuro c’è ancora spazio per la pallacanestro?
Tra qualche giorno, grazie ai miei diciassette anni da professionista, riceverò il patentino di allenatore ad honorem, quindi cercherò, visto che mi piacciono le sfide, di partire dal basso per vedere se posso allenare a buoni livelli.
Come è cambiato il basket?
È cambiato moltissimo, ora è più fisico. Il nostro era molto più tecnico e ragionato, non c’era il tiro da tre punti, quindi capitava che se eri sotto di venti punti, la partita era segnata.
Qual è il segreto per emergere?
Direi che serve abnegazione anche se parlare di sacrificio, per uno sport che si ama, non è forse il termine giusto, dedizione è più appropriato.
Sul suo profilo di Whatsapp c’è una foto che la ritrae in un’azione di gioco: uno contro uno. Non ha invece quella dell’ultimo canestro all’ultimo secondo che salvò il Basket Brescia dalla retrocessione?
Ho chiesto a tutti, ma non si trova il nastro di quella partita. Sono un tipo a cui piace rischiare e quel giorno andò bene. È un ricordo bellissimo che mi porto dentro. Ogni tifoso del Basket Brescia non manca di ricordamelo quando mi incontra e per me è sempre un emozione. La partita finì 81 a 80. In panchina nella Cagiva Varese c’era Sales, il coach che mi portò da Mestre a Brescia. Il destino.