di PAOLO CORSINI
12 mag 2015 00:00
Visitare gli infermi
La quinta opera di mesericordia commentata da Paolo Corsini
Un tema ricorrente nelle Scritture che, per quanto concerne il riferimento all'infermità, trova il proprio fulcro nella parabola del Samaritano - qui centrale è il prendersi cura - ed è addirittura assunto a "paradigma della spiritualità del Concilio" nelle parole di Paolo VI°, il Papa bresciano, nella sua allocuzione all'ultima sessione pubblica del 7 dicembre 1965. "Servire l'uomo, l'uomo diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità". Un'eco chiaramente riconoscibile delle parole del Salmo (103, 3-4) nelle quali pazienza, come condivisione, e misericordia di Dio accompagnano la storia della salvezza: "egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia". La misericordia di Dio, vale a dire il perdono, la consolazione, la pietà, la compassione, ma pure quale criterio di giudizio in quanto siamo chiamati alla virtù della misericordia perché a noi per primi è stata riservata. Una misericordia da vivere nel concreto dell'umana condizione, con mani soccorrevoli e cuore generoso, verso chi conosce esperienze di afflizione e dolore, situazioni di distretta morale e spirituale, uno stato di fragilità, debolezza, precarietà. Appunto l'infermità, una malattia dell'organismo corporale o della mente, sino all'estremo dell'invalidità o dell'inabilità, una menomazione come esito di una malattia che può scaturire, al di la dei tormenti del corpo, pure da pigrizia spirituale o essere il portato di quella desertificazione esistenziale che produce vite periferiche, da scarto.
Nella crisi dei sistemi contemporanei di welfare, in difficoltà a garantire una protezione sanitaria accessibile a tutti, curare gli infermi non significa, dunque, soltanto assistere l'ammalato, lenire le sue sofferenze, sostenere percorsi di guarigione nel segno di un rapporto affettivo di ascolto, di vicinanza tra paziente e quanti sono preposti alla pratica terapeutica. Significa anche recuperare a pieno la dimensione della prossimità, del colloquio, della medesimezza umana di fronte al progressivo sequestro dei sofferenti ai margini del tempo socialmente condiviso, alla stessa cosmesi della morte attraverso la quale ci illudiamo di sopravvivere cronologicamente alla nostra fine, vivendo una vita sostanzialmente spenta, inespressiva, mortificata. Come ha sostenuto in una sua straordinaria meditazione il compianto Cardinale Carlo Maria Martini.
PAOLO CORSINI
12 mag 2015 00:00