Università: il disagio degli studenti
Vi sono dei segnali preoccupanti, frequentemente riferiti dalla stampa, sul malessere degli studenti e delle studentesse nelle loro università. Il fenomeno si è dimostrato con i fatti drammatici e tristissimi di chi ha deciso di togliersi la vita pur di non affrontare la realtà del fallimento, ma anche segnali di crescita delle richieste negli sportelli di ascolto degli atenei.
È corretto, ma forse non è sufficiente, provare a descrivere questo disagio con i postumi della pandemia, che ha certamente determinato una situazione inimmaginabile, con conseguenze certamente più marcate per i giovani.
Credo si debbano ipotizzare almeno un altro paio di cause.
La mancanza di fiducia. La nostra vita si muove grazie alla percezione che esista un futuro, possibilmente migliore di quello che si sta vivendo. Per molti lo studio è un ascensore sociale, la possibilità di migliorare la propria condizione di vita e di benessere rispetto alle generazioni passate. Per altri ciò che importa è “semplicemente” una professione che corrisponda alle aspettative.
Tuttavia, da un lato verifichiamo che “l’ascensore” talvolta scende e non sale: molti giovani sperimentano condizioni lavorative peggiori di quelle dei loro genitori, anche a fronte di un titolo di laurea. Dall’altra non vediamo con chiarezza nemmeno il futuro delle professioni, persino le più consolidate. Non dimentichiamo infine che non vi è corrispondenza tra livello di studio e salario.
Si deve anche analizzare una seconda causa: lo stress derivante dalla competitività. È evidente che, in tema di perenne scarsità di risorse, vera o derivante da una loro cattiva allocazione, la competitività emerge come una necessità. Ciò avviene anche per le istituzioni di alta formazione, che sono incentivate anche in funzione della performance degli studenti.
Individualmente, una sana aspirazione a mettere a frutto i propri carismi è doverosa. Tuttavia si fatica a coniugare leadership con cooperazione e si continuano a proporre “modelli miraggio”.
L’Università in questo ha delle responsabilità? Certamente sì. Talvolta si nasconde la severità del giudizio verso i giovani (gli “esami blocco”) dietro l’incapacità di insegnare. Si propongono ai giovani alte mete speculative, ma non un progetto di vita ed un orizzonte etico da condividere o almeno da discutere. Si trovano pochi momenti di creazione della comunità dei docenti e dei discenti che fu l’origine stessa dell’università. Dobbiamo affinare l’orientamento alla vita, prima ancora che al percorso di formazione. L’università può aiutare, ma deve farlo insieme al sistema scolastico, alle famiglie, ai corpi intermedi. Creare luoghi di ascolto. Riorientare velocemente verso altri percorsi, da non percepire come punitivi, le centinaia di migliaia che abbandonano l’università. In due parole, dare fiducia, anche rischiando! La fiducia fa vivere!