Una mostra a cielo aperto con il Bigio?
l passato non lo si può cancellare. Questo non significa che si debba rimanere prigionieri del carico di simboli conferitigli dai contemporanei. Basta storicizzarlo: reinserirlo cioè nel suo contesto e nel suo tempo. Ogni atto, gesto, impresa acquista allora un significato diverso da quello attribuito dai suoi autori
Il tormentato percorso del Bigio verso una destinazione pubblica, dopo la lunga sosta in un magazzino comunale, sembra finalmente avviato a conclusione. A quanto si capisce, avverrà in due tempi. Dapprima sarà esposto in una sede, ancora da individuare, comunque non marchiata dal Ventennio. In seguito, tornerà in Piazza Vittoria. La sofferta procedura seguita, unita alla tormentata elaborazione della scelta definitiva costata più di un decennio di tergiversazioni e di rinvii, ben evidenzia l’imbarazzo che ha suscitato nei nostri amministratori il ritorno della statua di Dazzi al posto assegnatole nel 1932, decimo anniversario della Marcia su Roma. Brescia, come la maggior parte delle altre città italiane (Roma più di tutte), è ricca di vestigia architettoniche e di monumenti riconducibili alla dittatura. Ogni regime, a maggior ragione se totalitario, aspira a colpire l’immaginario popolare con la propria potenza realizzatrice e lasciare al contempo imperitura memoria delle sue ambizioni politiche affidandosi alla monumentalizzazione del paesaggio urbano. Il tempo per fortuna si incarica poi di depotenziare la carica simbolica dei luoghi, come delle singole opere, anche di quelle più politicamente connotate, integrandole nel tessuto cittadino. Così è stato anche per Brescia, persino per la fascistissima Piazza Vittoria, valorizzata ora dai bresciani al di là e oltre le sue connotazioni simboliche. Fa eccezione il Bigio. La complessa vicenda della statua (erezione nel nome e per la gloria del regime con l’intitolazione espressamente all’Era fascista, rimozione a fine guerra in spregio della dittatura appena abbattuta) ha caricato il manufatto di un richiamo così imbarazzante che a molti la sua ricollocazione sull’originario piedistallo suona come uno sdoganamento di un’idea avversa alla democrazia che a Brescia anche in epoca repubblicana ha inferto con la strage di Piazza della Loggia ferite e lutti pesantissimi. Come superare l’impasse? C’è un modo, a nostro avviso, utile a depotenziare, e in prospettiva anche ad annullare, la carica divisiva dell’operazione. Il passato non lo si può cancellare. Questo non significa che si debba rimanere prigionieri del carico di simboli conferitigli dai contemporanei.
Basta storicizzarlo: reinserirlo cioè nel suo contesto e nel suo tempo. Ogni atto, gesto, impresa acquista allora un significato diverso da quello attribuito dai suoi autori. Il fascismo uscirebbe dalla sua retorica per acquisire nella coscienza dei democratici il valore di un’esperienza vissuta nel nome della soppressione di ogni libertà, della persecuzione degli oppositori, di un nazionalismo guerrafondaio che ha finito per procurare al suo Paese, altro che il promesso Impero, bensì un pesante carico di lutti e distruzioni e infine una bruciante sconfitta. Come fare? Per non correre il rischio di far passare il reintegro del Bigio sul suo piedistallo come la riparazione di un torto subìto dalla parte politica che lo volle ergere a gloria imperitura del fascismo, si potrebbe illuminare la storia di quei tempi con una rivisitazione della città che illustri i caratteri, le gesta, gli esiti della dittatura. Per esempio con una mostra a cielo aperto, che accompagni per mano i bresciani a scoprire gli altri, tanti luoghi che del fascismo tramandano un messaggio ben diverso da quello voluto allora dai suoi fautori e oggi dai suoi epigoni. Mettere cioè in risalto la sua azione illiberale, la repressione attuata, l’autoritarismo che lo ispirava, le violenze consumate. In pieno centro, a pochi passi da Piazza Vittoria sono rintracciabili, ad esempio, eloquenti testimonianze non solo delle sue imprese fauste ma anche di quelle nefaste, come il luogo in cui si infliggevano le torture ai partigiani (alcune foto sono visibili in questi giorni alla mostra “Brescia sotto le bombe”) o la sede dei servizi segreti della Rsi in cui si concertavano manovre contro “i ribelli”. Il Bigio resterebbe, sì, simbolo dell’Era fascista, ma l’Era fascista acquisterebbe un senso ben diverso, ossia di un progetto totalitario, con gli esiti che tutti conosciamo.