Un padre e la stranezza del bisogno di protezione
A Padova una famiglia ha assistito per 37 anni il proprio figlio che si trovava in una condizione di minima coscienza, a causa di un incidente avuto in moto da ragazzo. Alessandro Guarnieri – questo il suo nome – è morto a fine gennaio per il sopraggiungere di una crisi respiratoria. I commenti sulla sua vicenda sono stati molti, ma ad aver attirato l’attenzione è stato un particolare dell’intervista al padre e al fratello pubblicata sul Corriere della sera il 29 gennaio. La conversazione si concludeva infatti con una ‘strana’ osservazione da parte del padre, in riferimento a chi pensa sia assurdo prendersi cura di qualcuno che si trova in una condizione di grave disabilità per così tanti anni: «Non giudico chi la pensa in modo diverso dal mio. Personalmente, credo invece nel libero arbitrio, nella possibilità che le nostre scelte incidano su ciò che siamo. Ecco, quel giorno in ospedale [il giorno dell’incidente], e in tutti i giorni che sono seguiti, io e mia moglie abbiamo scelto di proteggerlo. Ne è valsa la pena».
“Abbiamo scelto di proteggerlo”. Da chi? Da che cosa?
Per rispondere a queste domande si potrebbe dire che una dimensione di custodia è implicita in ogni dinamica di cura e in ogni relazione capace di avere un po’ di sostanzialità, come naturalmente accade, o perlomeno dovrebbe accadere, tra genitori, figli e fratelli. Eppure, non era solo di questo che quel padre, con una pace esistenziale che non poteva non colpire, stava parlando, tanto che la stranezza dell’espressione che ha scelto di utilizzare conserva, invece, un significato molto più profondo.
Perché, allora, usare un termine come ‘protezione’ da parte di chi per tanti anni ha voluto bene a un figlio, un fratello e un amico, riuscendo a trasformare in modo non scontato il dolore e l’inevitabile sofferenza personale in una più grande capacità di cura? Il motivo di questa scelta ha certamente a che fare con la condizione di gravissima disabilità di Alessandro – condizione che quindi non può in alcun modo essere presentata, come alcuni hanno inteso, come una forma (un’esistenza, in realtà) di accanimento terapeutico. Nondimeno, la sua ragione è ben più radicale e profonda. Nelle parole del padre trova espressione, infatti, il bisogno di proteggere il proprio figlio dagli sguardi indiscreti e dalla violenza implicita di una società che quando discute di bioetica spesso trasforma la vita delle persone in “casi” su cui scontrarsi ideologicamente, non di rado introducendo l’idea che in determinate condizioni non valga la pena vivere. Non lo si vede, ma nel modo in cui si dibatte sui temi dell’eutanasia e del suicidio assistito spesso si compie una silente e strisciante discriminazione nei confronti di molti malati e di moltissime persone con disabilità, nonché delle loro famiglie, che si trovano in situazioni analoghe a quella vissuta da Alessandro. Il bisogno di protezione, quindi, è la conseguenza di una famiglia e di una rete di amici che ha saputo rendere un evento straordinario e drammatico la routine di una vita quotidiana intrisa di significato.
Ancora di più è la reazione, forte per quanto educata, a una cultura paradossale in cui sono proprio la cura, le relazioni, gli affetti a divenire socialmente ‘sospetti’ quando le qualità personali si offuscano per una condizione di disabilità importante e si scoprono i limiti di una medicina incapace di fare i conti con la complessità della condizione umana. Di qui l’emergere di questo strano bisogno di proteggere sé stessi e i propri cari, vittime come siamo di un modello del tutto astratto e irrealistico di uomo, quello del self-made-man: non sappiamo che cosa sia, eppure si sta diffondendo sempre più. Per paradosso, la cultura del nostro tempo sembra darcene una testimonianza proprio in relazione al suicidio assistito e all’eutanasia. Impossibilitati a essere dipendenti solo da noi stessi, pensiamo di poter affermare la nostra indipendenza attraverso la morte, finendo per creare una cultura inospitale. Per tutti noi.
(Foto: Emergenza Sorrisi)