Un filo di speranza
Nella vita di tutti i giorni incrociamo molti sguardi che ci colpiscono e che poi riaffiorano, magari anche dopo diverso tempo, nella nostra mente. Nel tentativo di riqualificare e abbellire le nostre città sta diventando sempre più imponente e importante l’arte di strada che ci raggiunge (non siamo noi a cercarla) lì dove siamo. Sul territorio possiamo annoverare interpreti di assoluto valore, tra questi c’è senza dubbio Vera Bugatti che può contare su un’esperienza internazionale. A Montichiari, nel suo ultimo lavoro “PAG”, si interroga sul tema della pace, anche se è consapevole che è difficile parlarne, soprattutto quando il vento della guerra e la chiamata alle armi sembrano la risposta più scontata e, a detta di molti commentatori, inevitabile. L’ultima opera di Bugatti è un invito a non perdere la speranza. Come scrive nella poetica dedicata, “non possiamo smettere di coltivare e proteggere la pace, di creare relazioni, di lottare contro la violenza e per la democrazia, la giustizia sociale e i diritti umani, condizioni necessarie affinché la pace possa vivere”. L’etimologia della parola pace rimanda alla radice sanscrita paç/pak/pag che si ritrova nel latino pangere (“fissare, pattuire, legare, saldare”) e in pactum (“patto”). A questo ha pensato creando un grande trittico, che si sviluppa in stanze virtuali già delimitate dalle grondaie, un dipinto simbolico che evoca iconografie sacre. Cinque i personaggi, i cui tratti somatici rivelano varie provenienze, che non sono facilmente distinguibili perché “vogliono rappresentare tutti”.
Tre figure al centro, stipate in uno spazio angusto e soffocante, e due ai lati, con piccole finestre dietro le spalle. Separate da pareti senza aperture, possono comunicare solo attraverso una piccola corda (paç-as in sanscrito significa corda) che corre lungo tutta l’opera, passando dietro le grondaie. Una donna velata con gli occhi cerchiati dall’angoscia stringe a sé un bambino dormiente ferito ad un braccio, mentre una bimba le sbuca letteralmente da dietro la spalla, con lo sguardo perso, proteggendosi con il corpo della madre e tenendo la piccola corda fra le dita. Un cuore umano sospeso è agganciato alla stessa cordicella e la sostiene (o ne è sostenuto?). A sinistra una donna anziana con turbante rivolge a ciascuno di noi un silenzioso monito, reggendo la parte della corda alla quale è appeso un libro rovesciato. “È un simbolo profetico che rappresenta non solo la cultura e il potere dell’educazione e del rispetto ma la letteratura stessa della pace e della nonviolenza”. A destra un’altra figura femminile, giovane, tiene una colomba (arruffata, ingrigita) appoggiata alle dita e regge l’altro lembo della corda alla quale è appesa una fotografia che mostra un bambino soldato con un fucile in spalla. Le due figure laterali ci guardano, ci interpellano, mentre i personaggi della stanza centrale dirigono gli occhi altrove. Ci siamo assuefatti anche al fragore della guerra.