di ADRIANA POZZI
05 mar 2015 00:00
Testimone silenzioso
La vita del beato Giuseppe Girotti internato a Dachau
Nella baracca 26 di quel campo con lui erano prigionieri altri sacerdoti ortodossi, pastori protestanti e ministri di altre confessioni religiose: nacque così, animato e sostenuto da lui, un ecumenismo della sofferenza e dell’aiuto reciproco nel condividere la croce e nell’offrire al Dio, che tutti riconoscevano, la fatica, il dolore, le privazioni e le umiliazioni di quella condizione. Tutti si sentivano, insieme, discepoli di Gesù e, soprattutto nei momenti di preghiera, realizzavano, nella quotidiana condivisione di ogni cosa, quell’unità tanta desiderata e così difficile da ottenere. In occasione della sua beatificazione, avvenuta nel 2014, è stata ricordata una sua omelia tenuta in latino, per farsi capire da tutti i compagni di prigionia e i confratelli, il 21 gennaio 1945, durante l’Ottavario per l’unità dei cristiani; in quell’occasione propose una riflessione sulla preghiera sacerdotale di Gesù con cui chiede che i suoi discepoli siano “uno” come Lui e il Padre. Sono parole che rivelano come già allora, decisamente in anticipo, egli sentisse che il dialogo ecumenico era un’urgenza irrinunciabile e un impegno per ogni cristiano.
L’omelia si apre, infatti, con una lapidaria osservazione: “A nessuno sfugge che l’unione di tutte le Chiese e comunità è massimamente necessaria ai giorni nostri”. Osserva poi che la missione della Chiesa, nei tempi bui del totalitarismo e della barbarie, è quella di essere rifugio di umanità, di amore e di misericordia e che “…questa straordinaria missione…non può essere perfettamente condotta a termine se i fedeli di Cristo uniti nell’anima della Chiesa (perché la grazia del Salvatore abbraccia tutti quelli cresciuti nel suo seno) rimangono invece divisi nel suo corpo visibile...L’azione della Chiesa suppone l’unione”. Poche parole, ma ancora oggi preziose, che vale la pena di ricordare.
ADRIANA POZZI
05 mar 2015 00:00