Tenere desta la memoria della strage
Perdere la memoria degli avvenimenti tragici che hanno segnato la vita di un popolo, di una città, dell’umanità in generale, dispone a riviverli. La nostra città si sta preparando a ricordare i cinquant’anni della strage di Brescia (28 maggio 1974), avvenuta durante una manifestazione antifascista in Piazza della Loggia.
Da una prima impressione sembra che la Chiesa non si senta coinvolta nella riflessione che mira a rileggere i tragici giorni vissuti dalla città. Sulla base di questa impressione alcuni temono si riproponga la distanza registrata ai tempi della strage tra gli organismi diocesani e la città.Cinquant’anni fa la distanza fu avvertita nella diversa lettura della matrice dell’eccidio. Questa apparve fin da subito espressione di gruppi nostalgici del ventennio fascista e soprattutto timorosi che l’ordine democratico uscito dalla Resistenza avrebbe messo in discussione privilegi di forze economiche e politiche capitaliste.
Da parte sua, la Chiesa bresciana, in quel tempo luogo di contrapposizioni a volte aspre, manifestò la partecipazione allo sconcerto e al dolore della città, senza però condividere una lettura semplicemente politica della strage. Infatti, il giorno successivo al tragico avvenimento gli organismi di curia fecero affiggere un manifesto nel quale, insieme alla dichiarazione della necessità di scoprire e punire i colpevoli, si attribuiva la strage allo spirito di Caino, contrapposto allo spirito di Cristo, che è operatore di giustizia e di pace. Il manifesto suscitò la reazione dei cristiani delle comunità di base, che trovarono astratto il contenuto dello stesso e ritennero che non sarebbe stato opportuno celebrare l’eucaristia ai funerali, come peraltro il Comitato antifascista aveva chiesto al vescovo. Il motivo della reazione stava, da una parte, nel fatto che nel manifesto non si faceva riferimento alla matrice fascista della strage, dall’altra, che la celebrazione eucaristica appariva essere solo un debito alla logica concordataria della Chiesa.
Questa, agli occhi dei cristiani delle comunità di base, si mostrava lontana dalla sensibilità del mondo operario – più in generale dalla città – e incapace di presa di posizione chiara nei confronti dei movimenti antidemocratici. Peraltro poco tempo prima c’era stato il referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio e in preparazione a esso la posizione della Chiesa era apparsa sintonica con quella del partito guidato da Giorgio Almirante. Di fronte alle due diverse interpretazioni della matrice della strage – morale e politica – si poneva e si pone il problema se compito della Chiesa fosse allinearsi sulla comune lettura politica o non fosse quello di andare più a fondo e coglierne le cause morali e religiose. A queste si richiamava in più di una circostanza il vescovo Luigi Morstabilini, facendo intendere che la violenza, da qualsiasi parte venga, ha le sue radici nel cuore delle persone. Non si negava la matrice politica e soprattutto la necessità di fare giustizia, ma si proponeva di cercare la ricostruzione della convivenza civile a partire dallo sradicamento di ogni forma di violenza. Non si trattava semplicemente di riconoscere il colore – indiscutibile – dell’azione criminale, bensì di indicare percorsi che alla lunga avrebbero impedito ritorsioni criminali di altro colore. Resta il problema: ci si può esimere da un giudizio storico quando si vuole esprimere un giudizio morale? Molti se lo ponevano e se lo pongono anche oggi di fronte alle minacce che incombono per la convivenza democratica.