Simboli religiosi come portafortuna
La linea di demarcazione tra istituzionale e privato è diventata così sottile da inglobare tutto l’esistente in un calderone comune, una sorta di catino sociale dal quale è possibile attingere storie, immagini, simboli e, nello stesso tempo, produrli, moltiplicarli, mescolarli a proprio piacimento
Che la politica sia ormai da più un secolo orientata dai media è fatto innegabile. Così come è evidente che i social network rappresentino oggi la modalità di comunicazione più praticata dai politici di ogni schieramento. Ciò che, nell’ultimo decennio, invece è cambiato è il livello di mediazione delle tecnologie comunicative. Se i media di massa contribuivano alla costruzione dell’identità del personaggio politico esaltandone o demolendone la personalità pubblica, oggi il rapporto tra gli attori politici (governanti e cittadini) si gioca esclusivamente su un piano orizzontale, quasi paritario. Il politico diventa uno di noi e, all’inverso, noi diventiamo personaggi politici condividendo fotografie, video, opinioni in modo immediato ed efficace. La linea di demarcazione tra istituzionale e privato è diventata così sottile da inglobare tutto l’esistente in un calderone comune, una sorta di catino sociale dal quale è possibile attingere storie, immagini, simboli e, nello stesso tempo, produrli, moltiplicarli, mescolarli a proprio piacimento. Il Rosario esibito dall’ormai quasi ex Ministro dell’Interno è il tipico caso di come un oggetto (per un credente è certamente molto di più) sia delegittimato della propria identità originaria, decontestualizzato e riutilizzato in una chiave nuova. Non è questo un meccanismo certamente recente. La storia è piena di segni religiosi usati come simulacri o portafortuna.
La differenza è che, quelle che prima erano pratiche private, oggi tendono a collettivizzarsi assumendo processi di significazione completamente nuovi. Questa formula di remix culturale è definita “mash-up” (mescolare, ridurre in poltiglia) e riguarda soprattutto i beni audiovisivi. Il web è pieno, ad esempio, di video o immagini che riutilizzano frammenti preesistenti (spezzoni di film, canzoni, foto) per creare nuove storie con un senso completamente diverso da quello originale. La foto in bikini di Maria Elena Boschi che risponde a Salvini che la definiva “mummia” oltrepasserà di sicuro le intenzioni di chi l’ha creata e verrà ripubblicata, ritagliata e riproposta in chiavi differenti e opposte da quelle originarie. Sta succedendo anche all’istantanea che ritrae Aldo Moro in abito elegante in spiaggia, adoperata non per quella che è (una semplice e tenera rappresentazione familiare) ma come bandiera di una politica considerata dignitosa, sana, giusta rispetto ai drink, alla musica da discoteca e agli eccessi del Papeete salviniano. Insomma, i media hanno sempre meno funzione di costruzione e di filtraggio della realtà e favoriscono sempre più meccanismi di personalizzazione così forti da confondere anche il nostro ruolo sociale. Ma adattare tutto l’esistente a ciò che ci piace comporta anche dei rischi. L’enorme disponibilità di contenuti e la facilità di uso e riuso degli stessi può provocare disorientamento e può farci cadere in errore alimentando così quel processo di analfabetismo funzionale che, secondo alcune ricerche, “affligge” un italiano su quattro. E che può snaturarci rendendoci diffidenti verso chi riteniamo diverso, degli odiatori seriali o dei vendicatori fai da te. Magari seguendo i proclami e le promesse del politico attrezzato (social)mediatiacamente senza renderci conto che ognuno di noi dispone degli stessi mezzi e potenzialmente delle stesse competenze. Prenderne coscienza è il primo passo per non ritornare indietro e per propagare quel bene che inevitabilmente scaturisce dalla nostra umanità.