Severino vedeva la Gioia infinita
Paradossalmente Brescia, città del fare, ha così potuto annoverare tra i suoi figli quello che da molti è considerato uno dei più importanti filosofi italiani dell’ultimo secolo
“Ciò che se ne va scompare per un poco. I morti che se ne vanno scompaiono per un tempo maggiore. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare”. Scriveva così nella sua autobiografia Emanuele Severino. La morte che per lui non poteva essere il passaggio dall’essere al non-essere, ma solo dall’apparire allo sparire. Era nato a Brescia nel 1929, da padre militare di origine siciliana e madre bresciana di Bovegno e aveva sempre mantenuto un legame forte con la nostra città. Fu alunno del Liceo Arici, allora gestito dai gesuiti, dove avvenne il suo primo approccio con la filosofia tramite un prete, mons. Angelo Zani, un tomista che gli trasmise la passione per la filosofia che non deve “introdurre alla teologia” e non deve “farsi aiutare dalla fede”. Il rapporto conflittuale tra la filosofia rigorosa e la sua fede cristiana ha poi accompagnato il suo cammino di filosofo. Dopo gli studi a Pavia, allievo di Gustavo Bontadini, seguì il maestro all’Università Cattolica di Milano dove avanzò nella carriera accademica. Il suo pensiero si delineò sempre più chiaramente come un pensiero rigorosissimo a partire dall’intuizione di Parmenide secondo il quale “l’essere è e non può non essere” e seguendo la logica stringente della razionalità greca arrivò a trovarsi in contrasto con la dottrina cattolica.
Severino è testimone di come il cristianesimo abbia sì accolto nel suo seno le categorie greche, ma le abbia anche profondamente trasformate dall’interno e risignificate e lui, che voleva essere fedele alla razionalità greca, faticava a farvi rientrare (e alla fine rifiutò) quelle categorie proprie del cristianesimo come la creazione (dal nulla), la trinità e l’incarnazione (il divenire del Verbo eterno), la risurrezione (dalla morte). Ne seguì una diatriba dolorosa, tra il ’64 e il ’70, con la Chiesa che, in quanto docente in un’università cattolica, lo portò a sottoporre le sue opere all’esame della Santa Sede. Severino riconosceva rigore, onestà e anche cordialità da parte dei suoi censori che, lui stesso lo ammetteva, non potevano che certificare un’incompatibilità, che era reale, tra il suo pensiero e la dottrina cattolica. Destituito così dall’insegnamento in Cattolica approdò a Venezia dove ebbe fortuna, fece crescere molti allievi e divenne padre di una scuola filosofica tra le più rilevanti d’Italia. Nonostante i contrasti non ha mai disdegnato il confronto con la Chiesa bresciana e con i suoi esponenti, in particolare con il vescovo Luciano Monari. Il suo approccio era molto teoretico, poco storico, e forse per questo affascinante. Esponeva ogni filosofo facendolo rientrare con coerenza nel suo orizzonte speculativo, che leggeva la storia dell’Occidente come la storia del nichilismo, di una civiltà costruita sul presupposto contraddittorio che, negando Parmenide, le cose escono dal nulla e per questo possono essere manipolate e distrutte per poi tornare nel nulla, con tutti i guai della tecnica. Accanto ai testi più specialistici aveva affiancato pubblicazioni accessibili al vasto pubblico perché aveva il dono raro di farsi capire anche ai più, in particolare con editoriali sui giornali in cui in modo affascinante sapeva interpretare gli eventi e la storia.
Paradossalmente Brescia, città del fare, ha così potuto annoverare tra i suoi figli quello che da molti è considerato uno dei più importanti filosofi italiani dell’ultimo secolo. Proprio a Brescia nel marzo scorso al convegno per i suoi 90 anni sono convenuti i più grandi filosofi italiani. A sigillo della sua morte ritornano le sue parole: “I nostri morti ci aspettano. Ora sono degli Dèi. Per ora stano fermi nella luce. Come le stelle fisse del cielo. Lasciandosi alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all’infinito una Gioia sempre più infinita”.