Serve “neutralità” in fatto di religione
“Il datore di lavoro ha legittimamente il diritto – secondo la Corte di giustizia europea – di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici che privati, un’immagine di neutralità in materia di religione o di convincimenti filosofici”.
La Corte di giustizia europea ha emesso nei giorni scorsi un’attesa sentenza sollevata da alcuni casi in Francia e Belgio sul divieto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro. “Il datore di lavoro ha legittimamente il diritto – secondo la Corte – di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici che privati, un’immagine di neutralità in materia di religione o di convincimenti filosofici”. Una sentenza che fa discutere e che al di là delle distinzioni e dei dettagli pone ancora una volta il tema della dimensione pubblica dell’esperienza religiosa. Se infatti, “vietare il velo islamico sul posto di lavoro si può – dice la Corte Ue – a determinate condizioni”, è altresì pensabile che sia possibile a questo punto vietare qualsiasi altro segno di appartenenza religiosa. Infatti, se ai più potrebbe sembrare che il pronunciamento sia solo contro l’Islam, per la Corte, che ha sede in Lussemburgo, la legittima esigenza di neutralità dell’impresa non deve essere attuata in modo discriminatorio e quindi se le restrizioni valgono per gli islamici devono valere per tutte le convinzioni politiche, filosofiche e religiose.
Paradossalmente, in maniera estensiva, ci potremmo un giorno chiedere se le nostre suore potranno ancora indossare il velo negli ospedali o nei luoghi di lavoro dove sono impegnate a servizio degli ultimi. Oppure se potranno dei semplici cristiani portare al collo un crocifisso mentre compiono la propria attività lavorativa. O altresì sarà ancora possibile mantenere affisso il crocifisso in ambienti come scuole, tribunali e ospedali. La risposta è probabilmente negativa. “L’Europa lancia un chiaro messaggio: le sue comunità religiose non sono più le benvenute”. Questo il commento critico del rabbino capo Pinchis Goldschimdt, presidente della Conferenza dei rabbini europei. L’amara constatazione di Goldschimdt non può che trovare anche in ambiente cristiano una certa preoccupazione. Come non leggere l’ennesimo passo dell’Europa verso la costante e continua marginalizzazione del “fatto religioso” e il misconoscimento di qualsiasi “anima” religiosa della costruzione europea? Come pure non pensare che a corollario di questa “necessaria neutralità” si alzino voci autorevoli che stigmatizzino ancora una volta l’assoluta dimensione individuale di ogni esperienza religiosa aprendo magari il dibattito su un “presunto” illegittimo finanziamento delle Chiese (per esempio proponendo l’abolizione dell’8xmille) o ribadendo l’inopportunità di interventi delle fedi religiose in materia di cultura o di diritti e temi eticamente sensibili?
La triste miopia europea continua. Come continua l’incapacità di riconoscere che se oggi l’Europa è terra di libertà, democrazia, cultura e accoglienza molti meriti sono di un’ispirazione religiosa, quella della fede cristiana che è innestata in quelle radici, forse non dichiarate ufficialmente, ma non nascoste dell’identità dei popoli europei. Una riflessione che dovrebbe essere presente, almeno come sottofondo, in quei politici che con tanta solennità si apprestano a celebrare il 25 marzo prossimo, in Italia, il 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma del 1957. Ancora una volta invece, un’istituzione europea nega all’Unione la possibilità di credere di avere un’anima, qualsiasi essa sia, in nome di una laicità a 360 gradi. Le sfide elettorali in molti Paesi Ue dei prossimi mesi, tutte giocate sulle tensioni e le spinte populiste, nazionaliste e identitarie, rischiano tra l’altro di far implodere il disegno continentale perchè ormai incapace di porre il senso profondo e la necessaria ispirazione ideale di uno stare insieme che perde ogni giorno consensi. L’Europa è decisamente alle corde e questo non è un bene. Per nessuno.