di PAOLO CORSINI
22 mag 2015 00:00
Seppellire i morti
Il nostro è un tempo di una società “post-mortale” che tende a rimuovere la morte dalla coscienza del soggetto
Un evento, la morte, decisivo per la vita non solo in quanto assolutamente ineludibile, ma perché produce senso e contribuisce a definire gerarchie di valori e priorità, a selezionare mezzi e stabilire fini, a vivere la vita come dono che ci è dato e possiamo offrire, a riconoscerla in tutta la sua profondità e durata, la vita nascente, la vita vivente, la vita morente. Seppellire i morti non implica solo il richiamo all’incombenza della fine , ma un implicito impegno a una elaborazione del “transito”, a una considerazione del passaggio in tutto il suo mistero, in tutti gli interrogativi che pone, in tutte le angosce e tormenti che suscita.
Al cospetto della privatizzazione della morte – comunque si muore soli – il rito della sepoltura, la celebrazione delle esequie, non solo assumono valenza pubblica, ma contribuiscono ad assegnare senso al non senso della fine, a resistere alla tentazione del nichilismo e della reificazione, della perdita di sé, ritrovando di fronte al morto una comune appartenenza al genere umano, il sentimento dell’“umana compagnia”. In acculturazione cristiana questo trova la propria forza nel mistero pasquale, in quell’alfa e omega che sono rappresentati dal Cristo, dalla sua morte e resurrezione. Da qui il rito della sepoltura non come atto conclusivo, espressione di un ordine sociale, di una liturgia consolatoria, ma come alimento di speranza e di fede nel ritorno del Risorto.
PAOLO CORSINI
22 mag 2015 00:00