Scuola. Cosa c’è da raccontare?
In un racconto di Isaac Asimov, uno dei padri della letteratura fantascientifica del 1900, la protagonista, Margie, una preadolescente del 2157, scrive sul suo diario segreto: “Ma che cosa c’è da scrivere sulla scuola?”
In un racconto di Isaac Asimov, uno dei padri della letteratura fantascientifica del 1900, la protagonista, Margie, una preadolescente del 2157, scrive sul suo diario segreto: “Ma che cosa c’è da scrivere sulla scuola?”. Il racconto continua chiarendo al lettore che “Margie aveva sempre odiato la scuola, ma ora la detestava più che mai”. All’inizio di un nuovo anno scolastico, studenti, insegnanti, dirigenti scolastici, genitori, potrebbe porsi la stessa domanda di Margie.
Ed è probabile che, per certi versi, possa sperimentare una sorta di “odio” simile al suo verso la scuola: che sia per i compiti o i voti, da studenti; per le riunioni e la burocrazia, da insegnanti; per le difficoltà organizzative, da dirigenti; nonché, per la poca sensibilità educativa presente a scuola, da genitori. Insomma, di motivi per non essere contenti della scuola ce ne sarebbero molti altri anche all’inizio di questo nuovo anno. Tuttavia, nel medesimo racconto, ad un certo punto la protagonista, mentre sta ascoltando una noiosa lezione di aritmetica, inizia a pensare “Alle scuole di una volta”, quelle di cui ha trovato scritto in un vecchio libro di suo nonno, quando a scuola si imparava leggendo “Parole che restavano ferme, senza scorrere su uno schermo”. In quelle scuole, “Tutti i bambini del quartiere arrivavano a scuola, ridendo e gridando, poi andavano a sedersi tutti assieme nell’aula e alla fine della scuola tornavano a casa insieme. Imparavano le stesse cose e così potevano discutere e aiutarsi nei compiti che dovevano fare.
Quando i professori erano delle persone…”. Le scuole cui Margie fa riferimento sono le scuole di oggi, visto che lei scrive nel 2157, in un’epoca in cui non ci sono più né libri, né classi, ma solo TV e precettori privati. Il racconto di Asimov è di grande attualità. Per esempio, nella Legge 107 (quella sulla “Buona scuola”), diversamente da quanto racconta Margie, non si trova mai scritta la parola “persona” per indicare il senso della scuola attuale. Inoltre, quale significato può avere l’istruire insegnando a leggere parole che se ne stanno ferme sulle pagine di libri, in un tempo in cui gli studenti, fin dalla tenera età, sono più avvezzi a farle fluttuare su un tablet o su un smartphone? Perciò, forse, la domanda di Margie potrebbe essere così riformulata, per noi attori della scuola odierna: di quale scuola vogliamo si racconti davvero agli studenti del 2157 in riferimento a ciò che viviamo oggi?
Luciano Pace