Riusciremo un giorno a crescere?
Riusciremo a crescere un giorno? La domanda non riguarda i fondamentali economici: quelli, pur con sguardo prudente, vanno bene. Le esportazioni continuano ad aumentare (a Brescia +7,6% nel secondo trimestre, in linea con il segno positivo che c’è ovunque in Italia), il manifatturiero in particolare ottiene risultati lusinghieri
Riusciremo a crescere un giorno? La domanda non riguarda i fondamentali economici: quelli, pur con sguardo prudente, vanno bene. Le esportazioni continuano ad aumentare (a Brescia +7,6% nel secondo trimestre, in linea con il segno positivo che c’è ovunque in Italia), il manifatturiero in particolare ottiene risultati lusinghieri. Nel breve periodo le prospettive di crescita sono positive come suggeriscono i dati diffusi dall’Istat nei giorni scorsi, che indicano crescita della fiducia sia da parte dei consumatori che delle imprese, consolidata quest’ultima dai numeri dei fatturati (+4%) e degli ordinativi (+10% in un anno). Anche il fronte occupazionale, ma qui la prudenza deve essere maggiore, genera un sorriso: crescono infatti le ore di lavoro complessive (dell’1,4% su base annua) anche se bisogna pur dirsi che la gran parte dell’occupazione è ancora a termine, a conferma che non bastano gli incentivi (drasticamente ridotti dopo il biennio delle decontribuzioni) a creare nuovo lavoro. Ma nonostante tutto il bicchiere, dopo anni cupi, lo si può insomma vedere mezzo pieno.
Detto questo non si può non notare che un bel pezzo di questa crescita è legato a una congiuntura internazionale positiva e che, a voler essere puntigliosi, anche nel 2017 l’Italia continua a farlo meno dei vicini. Se noi cresciamo dell’1,5%, in Europa è del 2,3%. Dirsi che andiamo bene è positivo per la fiducia ma non può essere paravento per dimenticare che abbiamo ancora un grande problema Paese da risolvere. Il debito pubblico gigantesco accumulato negli anni è lungi dall’essere minimamente intaccato e questo complica la situazione. In Europa è da tempo avviato un dibattito in direzione di una maggiore integrazione tra gli Stati: Merkel e Macron ne sono inevitabilmente i principali protagonisti ma l’Italia potrebbe avere un ruolo più centrale se non fosse invece l’eterna guardata a vista, quella che preoccupa più per la tenuta dei conti (e dell’euro) che non per l’apporto positivo che può dare. Oltre al debito altri mali sono ben lungi dall’essere solo minimamente affrontati, dalla burocrazia al fisco esoso, per non parlare del problema non risolto dei crediti alle imprese (43 miliardi di euro non pagati nel 2016 per beni e servizi prodotti dalle imprese per lo Stato).
Lo stesso piano Calenda sull’Industria 4.0, pur positivo, non sta dando tutti i risultati sperati per le Pmi, quelle che non ci stancheremo mai di ricordare costituiscono l’ossatura del Paese. Non perché siano più belle degli altri, ma perché rappresentano il 90% dell’economia. Senza Le Pmi non ci sarà nessuna quarta rivoluzione industriale in Italia, per cui provvedimenti specifici e più mirati rivolti alle Pmi servirebbero, eccome. In altri Paesi le Pmi hanno addirittura un ministero dedicato: da noi sarebbe pretendere troppo, perché una politica industriale degna di questo nome manca per tutti, grandi e piccoli. La politica sembra lontana da questi problemi, incapace di produrre addirittura una legge elettorale sensata. Si dirà che anche in Germania ci metteranno settimane a formare un governo: giusto, ma lì hanno cultura della stabilità, mentre da noi l’incultura dell’instabilità è una costante che crea problemi dentro e fuori i confini. Anche di questo siamo preoccupati. Fiduciosi per i segnali positivi che arrivano dall’economia, aperti ai mercati e attenti a come potrebbe cambiare l’Europa, ma desolati per la fragilità dell’Italia che permane e questa incapacità di crescere, politicamente e culturalmente.