Rispondere alle povertà
L’economista Stefano Zamagni aveva recuperato un termine per descrivere la paura mista a disprezzo verso il povero: aporofobia. Paura e disprezzo per ciò che il povero è o, forse, per ciò che si teme di diventare.
Il disprezzo lo cogliamo nelle incessanti narrazioni di odio contro gli stranieri, contro i disabili, contro i poveri, mangiapane a tradimento col Reddito di cittadinanza o con altre forme di sussidio statale. La paura la cogliamo nei dati della realtà: l’ultima ricerca della Caritas sulla povertà dice che il 44% di chi si rivolge ai suoi sportelli è formato da “nuovi poveri” e abbiamo sotto gli occhi i dati delle migliaia di lavoratori perdenti posto a causa della pandemia o delle esigenze di ristrutturazione. Qualcuno se ne è reso conto dal giornale o qualcuno direttamente dall’email che gli hanno spedito.
È fondata la paura che il sempre più profondo abisso degli “ultimi” risucchi anche qualcuno tra i penultimi e i terz’ultimi. Prendiamo a prestito da Nietzsche un aforisma: se guardi l’abisso, poi è l’abisso che guarda dentro di te. La povertà, la paura e il disprezzo ci guardano dentro e ci chiedono di dare qualche risposta. Perché non basteranno i soldi del Pnrr senza uno slancio di futuro fondato su un’idea politica. Finora – usando le parole del Censis – abbiamo proceduto attraverso una sorta di bonus economy, ossia aiutare e dare sussidi alla bisogna, per tirare avanti ed evitare il peggio, per intervenire sulle crisi economiche e finanziarie, pandemiche e sociali. Lo Stato, così, rischia di reagire alle falle, spesso create da altri, in una condizione di emergenza continua, a volte vera, a volte indotta da una narrazione solo parzialmente vera.
Ma basterà – in futuro – intervenire sulle conseguenze? È inevitabile pensare al futuro come declino? Serve provare ad andare alle radici. Serve un nuovo welfare, più adatto a soddisfare la pluralità e la complessità delle patologie sociali: il “lavoro inibito” o povero a 5 o 6 euro l’ora, le malattie mentali associate ai traumi sociali, la disabilità e la non autosufficienza. Occorre prendere atto che il futuro non presenterà minori bisogni sociali, anzi. E allora – proprio per avere un welfare più potente – servirà un nuovo compromesso keynesiano o, come scrive l’economista Michele Salvati, un nuovo patto sociale inclusivo, un “nuovo compromesso social-democratico” come quello che si è manifestato negli anni del Dopoguerra. In un cambio d’epoca occorre che la politica sia all’altezza della sfida con un nuovo sano riformismo. Vogliamo parlarne?