Ripensare la parrocchia
Una domenica di maggio in tempo di Covid in una chiesa della città. Alla comunione “mi maschero” e metto i guanti per distribuire l’eucaristia. La gente è ferma al suo posto. Sul lato destro vado io, a sinistra provvede il diacono permanente presente alla celebrazione. Alla fine della Messa mi ferma un’arzilla vecchietta, più o meno novantenne, che mi rimprovera perché non mi sono spostato sul “suo lato” per farle la comunione. “Io dal diacono – sottolinea seccata – a fare la comunione non ci vado! Solo il sacerdote può fare la comunione”. Vista l’età, sorrido e incasso. Non è il momento di tirare in ballo il Concilio, il battesimo, il sacerdozio comune, il senso e i compiti del diaconato permanente per la vita della Chiesa...ecc. Un aneddoto come tanti segno di un sentire ancora diffuso che se appartenesse solo a generazioni passate sarebbe comprensibile, seppur folkloristico, meno quando manifesta una resistenza pervicace al cambiamento.
Da qualche giorno è stata diffusa l’Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, a cura della Congregazione per il Clero in cui si auspica la collaborazione tra parrocchie e si guarda con favore alla costituzione delle unità pastorali, a partire dalla consapevolezza che “l’appartenenza ecclesiale oggi prescinde sempre più dai luoghi di nascita e di crescita dei membri e si orienta piuttosto verso una comunità di adozione”. L’obiettivo è dimostrare che “nella Chiesa c’è posto per tutti e tutti possono trovare il loro posto” nell’unica famiglia di Dio, nel rispetto della vocazione di ciascuno, cercando di valorizzare ogni carisma e di preservare la Chiesa da alcune possibili derive, come “clericalizzare” i laici o “laicizzare” i chierici, o ancora fare dei diaconi permanenti dei “mezzi preti” o dei “super laici”. Uno stimolo a “ripensare non solo a una nuova esperienza di parrocchia, ma anche, in essa, al ministero e alla missione dei sacerdoti e dei laici”.
Si parte dal riprendere il tema delle unità pastorali, a cui Brescia ha dedicato addirittura un Sinodo diocesano nel 2012, da non creare solo perla mancanza di clero fino a dare indicazioni “sull’ufficio del parroco” precisando come il Vescovo diocesano possa addirittura “affidare una partecipazione all’esercizio della cura pastorale di una parrocchia a un diacono, a un consacrato o un laico, o anche a un insieme di persone (ad esempio, un istituto religioso, una associazione)”, coordinati e guidati da un presbitero “con legittime facoltà”, costituito “moderatore della cura pastorale”, al quale “esclusivamente competono la potestà e le funzioni del parroco, pur non avendone l’ufficio, con i conseguenti doveri e diritti”. Anche se si tratta – si precisa nel documento – di “una forma straordinaria di affidamento della cura pastorale”, da adottare “solo per il tempo necessario, non indefinitamente”, perché “dirigere, coordinare, moderare, governare la parrocchia compete solo a un sacerdote”. Il testo mette in guardia da tutte quelle espressioni linguistiche “che sembrano esprimere un governo collegiale della parrocchia”, ma valorizza molti dei servizi e ministeri dei diaconi e dei laici fino, in situazioni particolari, alla possibilità di far amministrazione il battesimo, celebrare il rito delle esequie e assistere ai matrimoni, naturalmente senza Messa. Tra le indicazioni pratiche del documento, figura l’esigenza di non “mercanteggiare” la vita sacramentale, dando l’impressione “che la celebrazione dei sacramenti – soprattutto l’eucaristia – e le altre azioni ministeriali possano essere soggette a tariffari”, anche se non vuol dire che non si deve fare l’offerta per far “dire una Messa”. Novità possibili, da noi alcune magari molto futuribili, altre un po’ meno in un tempo in cui siamo in ascolto dello Spirito dopo la prova del Covid 19. Certo l’arzilla vecchietta ne avrebbe da dire, ma una comunità cristiana sapiente non potrà stare troppo a guardare senza agire.