Ricreare radici per ripartire
Di fronte al Santuario delle Consolazioni c’è una pietra d’inciampo (sono complessivamente 441) con il nome di Carlo Saronio, rapito il 14 aprile del 1975 e poi ucciso dal Fronte Armato Rivoluzionario Operaio. Non riuscì a vedere l’unica figlia, Marta, che nacque alcuni mesi dopo la sua morte. Il corpo di Carlo venne ritrovato solo nel 1979. Rappresenta una delle tante pagine tristi e drammatiche degli anni Settanta, degli anni di piombo.
Nell’aria c’era una diffusa sfiducia nei confronti delle istituzioni. Era un giovane ingegnere, benestante, che provava un senso di colpa di fronte alle tante disuguaglianze. Voleva cambiare il mondo. Era stato anche in Brasile, affascinato dalla teologia della Liberazione e dalla figura di dom Hélder Câmara. Non gli bastava. Aveva manifestato una simpatia per il gruppo di estrema sinistra Potere Operaio, da cui però aveva scelto di allontanarsi. La sua vicenda è stata raccontata nel libro “Ricreare radici. Carlo Saronio e la nostra famiglia” che è stato illustrato in un incontro, organizzato dal Circolo Acli e dalla parrocchia di Cristo Re, alla presenza dell’autore, Piero Masolo.
Carlo era lo zio di padre Piero, già missionario del Pime in Algeria, che ha voluto riannodare i fili, non per fare un ritratto agiografico, ma per ricostruire una relazione perduta e per comprendere qualcosa in più su una stagione ormai lontana. Spesso le storie delle nostre famiglie si intrecciano con la Storia con la S maiuscola. Padre Piero ha voluto incontrare anche Carlo Fioroni, l’amico che ha tradito Saronio e ha partecipato al rapimento. Bisogna stare dentro la storia per comprenderla. E, anche se fa male, bisogna avere il coraggio di immedesimarsi nell’altro, di mettersi in ascolto.
È questo il concetto della giustizia riparativa applicabile nella vita di ogni giorno. Un percorso di giustizia riparativa è emotivamente impegnativo: richiede il desiderio di raccontarsi, il tentativo di cercare di spiegare le motivazioni e la capacità di alzare lo sguardo sulla sofferenza dell’altro. Non è facile. L’incontro tra i parenti delle vittime e i carnefici può generare processi di cambiamento nella società. Guardare il volto dell’altro significa accorgersi che di fronte non c’è un mostro ma una persona vittima di un sistema malato. C’è, infatti, una responsabilità collettiva alla quale non possiamo sfuggire, anche quando non siamo noi i protagonisti in negativo.