Ricovero definitivo: scelta difficile
Incontro nell’ufficio del direttore sanitario di una residenza per disabili. Sono presenti la caposala, il fratello di una persona disabile ricoverata, l’operatrice incriminata e il direttore sanitario stesso
Incontro nell’ufficio del direttore sanitario di una residenza per disabili. Sono presenti la caposala, il fratello di una persona disabile ricoverata, l’operatrice incriminata e il direttore sanitario stesso. È avvenuto un pesante conflitto durante lo svolgimento di una giornata ordinaria, ma è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. È da un po’ di tempo che il famigliare denunciava malcontento per l’assistenza a sua sorella: alimentazione qualitativamente non buona, trascuratezza nel vestiario, messa a letto in orari non consoni, ecc. Questo succede spesso quando la famiglia si sente costretta ad un ricovero definitivo del proprio familiare, perché incapace di far fronte alle importanti problematiche assistenziali e mediche nel caso di disabilità grave, di vecchiaia avanzata, di demenza. La famiglia fa questa scelta generalmente con un carico di sofferenza psicologica enorme: non vorrebbe farlo, ma con tanti dubbi e sensi di colpa, si sente costretta perché non vede altra possibilità. Allora l’aspettativa verso le cure “degli altri” (cioè il personale medico, infermieristico, assistenziale) è molto alta, spesso non realistica, idealizzata. Dato che la scelta è costata tanto, ci si aspetta di avere conferma della sua bontà riscontrando nella nuova situazione la perfezione. Ma è impossibile che l’idealizzazione corrisponda alla realtà. Ed allora scatta nel famigliare malcontento e, a volte, conflitti verso le persone a cui è stato affidato il proprio parente. Questa è la situazione accaduta qualche giorno fa in questa residenza per disabili.
Si è pensato allora ad un incontro al vertice, cioè con il direttore sanitario e le persone coinvolte. A lui è stato dato il potere di essere giudice della situazione e di redimere il conflitto creatosi. L’incontro comincia nel migliore dei modi: la caposala si scusa per aver perso la pazienza ed aver reagito in modo non professionale con il famigliare. Così facendo dimostra davvero professionalità perché questa, nel campo sanitario, non si limita al solo aspetto tecnico, ma anche ad un sapere psicologico nel condurre relazioni con persone (assistite o famigliari) in condizione di fragilità: non è questa una relazione paritaria. La caposala espone poi le difficoltà oggettive nell’ottemperare alle esigenze del famigliare. La stessa cosa fa l’operatrice. Caposala ed operatrice dimostrano empatia verso il fratello della loro assistita. Affermano di essersi trovate anch’esse, nella loro vita privata, in una situazione simile. Il famigliare espone così tutte le sue lamentele in tono pacato, senza essere contraddetto. Viene ascoltato con attenzione, guardandolo negli occhi, senza espressioni del viso che denotino svalorizzazione. Non vengono fatte battute sarcastiche, da nessuna delle parti. Tutto si svolge con molto rispetto, perché ognuno ha le sue ragioni, ha la propria percezione della stessa realtà. L’incontro si conclude con una risata collettiva che denota una distensione. Verrà cambiato concretamente qualcosa? Alimentazione, vestiario, orari della messa a letto? Con molte probabilità, niente. Ma tutto forse sarà diverso, perché il clima relazionale è diverso. E questo si riverserà positivamente anche sull’assistiti. E il direttore sanitario cos’ha fatto? Niente, apparentemente: non ha dato giudizi salomonici, né soluzioni. Ha avuto però un ruolo fondamentale: ha permesso il cambiamento dando uno spazio adeguato, fisico (il suo ufficio) e di tempo (un’ora abbondante), in cui ognuno potesse esprimersi, essere ascoltato e capito. Non c’è stato bisogno che lui portasse chissà quali idee geniali, ma ha affrontato in modo magistrale il problema. Ha vinto senza combattere.