Quel senso di riconoscenza
Quando si usano frasi tipo "sono stati giorni difficili" o "è un'esperienza che ti segna" non ne comprendi mai a pieno il senso, finché non ci passi in mezzo. Tutto è iniziato quando ancora l’onda dello tsunami stava arrivando. Prima la tosse, poi la febbre, poi il fiato sempre più corto. Dopo una settimana ero ricoverato in Poliambulanza, la “mia” Poliambulanza e guardavo il mondo dalla parte del paziente. Mi era successo già negli scorsi anni, ma questa volta era diverso: la consapevolezza che avrei potuto non farcela era piena e quello che mi succedeva intorno non faceva che confermarlo ogni momento.
Mi sono trovato così, con una maschera che spingeva aria a forza nei miei polmoni, ma non si creda che mi desse fastidio: senza era molto peggio, era come se tenessi il viso sotto il getto della doccia e tentassi di respirare. Appena chiudevo gli occhi, apparivano immagini e sensazioni, sogni ad occhi aperti, per lo più incubi: mi mancava il respiro, se cercavo di respirare a fondo arrivava la tosse e subito riaprivo gli occhi.
La saturazione calava, 90, 89, 87… nonostante la ventilazione non invasiva il sangue non riceveva ossigeno.
I miei colleghi parlavano chiaro: “Walter, un punto in meno e ti intubiamo, sei da terapia intensiva.”
In quei momenti tanti sono stati i sentimenti e le sensazioni.
Prima fra tutte quella che non ho provato: la paura. Di questo ringrazio Dio. La preghiera in quei momenti e la fiducia sono stati un farmaco potente ed io stesso ne sono rimasto stupito.
Molta invece la preoccupazione: per mia moglie e mio figlio, anche loro malati, a casa, per mia figlia in affido, che ha superato un tumore, per mia figlia grande, infermiera in un pronto soccorso. Preoccupazione per i problemi economici se me ne fossi andato, non essendomi mai preoccupato di morire, prima di questo tempo.
Il sentimento negativo più grande è stato il rammarico. È un’angoscia profonda sapere che, se te ne vai, tutto ciò che hai continuamente rimandato, pensando di farlo “quando avrò tempo”, non lo farai più. E non sono le cose dell’avere, non sono i viaggi, non i disegni o i libri di fotografie incompiuti. Mi dava pena che di me, della mia vita, della mia storia, delle mie scelte e dei valori che mi hanno fatto stare bene, non avrei lasciato nulla di scritto, come ho sempre voluto fare, e non ho mai fatto. Non un libro, ma un quaderno, un quaderno dove raccontare ai miei figli tutto ciò che ho fatto, le persone che ho incontrato, le scelte e le motivazioni, i sentimenti, gli amori. Dei miei genitori ricordo poco. Dei miei nonni, nulla.
Vorrei scrivere un quaderno che contenga i ricordi di una vita. “Se muoio – ho pensato - domani sarò anch’io nel mucchio, senza aver trovato il tempo per lasciare qualcosa”.
Ma ci sono anche i sentimenti belli che mi hanno accompagnato. Per prima, la consapevolezza che noi non siamo i padroni della vita, ne siamo il mezzo di trasporto. Come tanti piccoli vagoni di un infinito treno. Ognuno di noi riceve un pezzo di Vita. Che non si trasmette solo con le leggi della scienza e dell’ereditarietà. Si trasmette con le leggi dell’Amore. E cresce, e si sviluppa, e cambia ogni volta che incontriamo qualcuno, ad ogni esperienza, ad ogni respiro. La Vita che ci è stata data all’inizio la trasmettiamo così, a chi viene dopo. Perché a noi era stata data da chi è venuto prima. I nostri cari sono dentro di noi. I vestiti sono al cimitero o nella cenere. Ma il loro pezzetto di Vita è arrivato a noi. Il mio pezzetto di Vita l’ho preso, stropicciato, fatto crescere, talvolta ferito, una volta sporcato, altre volte lavato. Trasformato. E adesso è già in chi viene dopo di me.
Tanti pezzetti di Vita. Tutti insieme fanno una sola, infinita, bellissima, immortale Vita: si chiama Dio. E farne parte mi dava serenità anche nei respiri più faticosi. Questo mi consolava. “La mia anima sarà in quella di mia moglie e dei miei figli, come quella dei miei genitori è in me. Ci sarà un funerale? Be’, daranno l’addio al vestito che l’ha contenuta, nulla di più!”
L'esperienza umana di queste giornate è stata intensa e il pensiero costante che mi ha accompagnato e mi è presente tutt'ora è quello della riconoscenza. Riconoscenza verso quegli occhi gentili, gli unici che mi era concesso vedere, amorevoli, interessati, stanchi, segnati, preoccupati ma mai provati, sempre presenti soprattutto nei momenti difficili. Riconoscenza verso quelle mani, quelle schiene piegate dalla stanchezza, quelle parole dette al momento giusto. Riconoscenza per il coraggio di essere qui, per l'empatia che non si studia sui libri, per la con-passione, la condivisione, la responsabilità delle nostre donne e dei nostri uomini.
Potrebbero abbattere i muri di Poliambulanza, ma il volto di Poliambulanza resterebbe lo stesso. Perché è il volto di chi non è solo un professionista, ma di chi sa essere prossimo. Ho pensato più volte con dolore a chi non ce l'ha fatta, ma sono certo che mai sarà mancato lo sguardo di chi, nella solitudine della fine, avrà saputo essere non solo medico o infermiere, ma anche padre, madre, figlio o fratello.
Per questo motivo, quando l’albero in giardino che era apparentemente morto è rifiorito, quando la saturazione per un miracolo è tornata a salire e mi ha risparmiato la Terapia Intensiva, quando il tempo si è sbloccato e si è avvicinato il momento di uscire e ricominciare la più bella primavera della mia vita, l'unica cosa che ho pensato di fare è stata di inginocchiarmi: simbolicamente, di fronte ad ogni persona, medico, infermiere, Oss, ausiliario che ha incrociato il mio destino. In ginocchio per ringraziare Dio per questo rinnovato dono. In ginocchio per esprimere ad ognuno il mio più semplice, profondo, sincero e commosso grazie.