Quanta, troppa, rassegnazione
Negli ambiti ecclesiali serpeggia molta rassegnazione. Si avverte una scarsa capacità di guardare al futuro con quel briciolo di speranza che aiuta, anche nelle situazioni più impensabili, a illuminare il buio. La burocrazia amministrativa, le celebrazioni e le riunioni appesantiscono la vita del prete anche se diventano un alibi per poi potersi lamentare. Gli operatori pastorali accusano segni di stanchezza, perché gli sforzi non sempre sono ripagati dai numeri. Sì, siamo troppo ripiegati su una valutazione matematica di quello che proponiamo. Continuiamo a ripetere senza troppo successo (sempre secondo i nostri parametri) i modelli del passato. Eppure c’è un mondo che ha bisogno di trovare delle risposte a tante domande inevase: chi sono? Per chi vivo? Per cosa vivo? Sono i cosiddetti “lontani” che dobbiamo intercettare là dove vivono, lavorano o trascorrono il tempo libero. All’Angelus della scorsa domenica, il Papa ha ricordato che “rischiamo di diventare impermeabili a tutto e di non dare spazio a chi ha bisogno di ascolto: penso ai figli, ai giovani, agli anziani, a molti che non hanno tanto bisogno di parole e di prediche, ma di ascolto”. E poi ci sono i “vicini”. Siamo sicuri di conoscere quel 15% che partecipa all’Eucaristia domenicale? E se non lo conosciamo, a chi ci rivolgiamo quando prepariamo un’omelia o un incontro? Siamo così sicuri di sapere come hanno trascorso la settimana o quali preoccupazioni albergano nei cuori delle persone? Ci interessano i padri e le madri in quanto persone (con un lavoro, magari anche precario, o con le loro passioni) o solo come genitori dei ragazzi dell’iniziazione cristiana? Conosciamo le fatiche, le ferite e le fragilità delle famiglie? E questo invito vale per i sacerdoti ma anche per i laici più “impegnati” e corresponsabili nella crescita della comunità. Ci sono nuove vie da esplorare. Certo occorrono l’entusiasmo di mettersi in cammino e il coraggio di ricostruire.
