Preti nella stagione dell'epidemia
Abbiamo tradito la nostra intima vocazione presbiterale se non ci siamo stati fisicamente accanto ai defunti e alle loro famiglie? Sì, li abbiamo lasciati soli e abbiamo tradito la nostra vocazione se non crediamo alla forza della preghiera e dell’intercessione nella celebrazione eucaristica
Non ho dubbi che non ci sia un prete che, in queste drammatiche settimane dall’esplosione della pandemia, tra le fatiche del ministero (non da ultima quella di celebrazioni senza assemblea) non si stia sentendo profondamente a disagio, anzi – per dirla con parole più precise e forti – non senta “contro natura” il non poter accompagnare con la presenza di una benedizione e il conforto sacramentale un morente e con la potente e austera semplicità delle esequie cattoliche un parrocchiano.
Perché appartiene alla natura del nostro servizio il ministero della consolazione, l’inserire nella morte e risurrezione di Gesù la morte di ogni fratello e sorella, attraverso quei riti che mai forse ci sono stati così cari come in questa situazione, riti che parlano di lacrime e di speranza, di dolore e di attesa: hanno la forza celebrativa di dare voce a tutte le tonalità della vita e di ricomporle, faticosamente, ma incessantemente, nel canto di lode al Dio della Vita dentro cui ha origine e si compie ogni vita.
E, invece, giustamente, per evitare che il contagio provochi altre sofferenze e altri lutti, anche noi dobbiamo stare fisicamente a distanza e non ci è data la possibilità di celebrare come vorremmo, nel Signore della Vita, la vita dei nostri fratelli e sorelle defunti. È un dolore nel dolore tutto questo. Che ci fa intuire un poco il dolore di tanti fratelli e sorelle che non sono potuti stare accanto ai loro cari nel tempo della malattia e dell’agonia e che (facilmente) non hanno neppure potuto presenziare al momento liturgico al campo santo, perché costretti loro stessi in isolamento o quarantena.
Ma allora li abbiamo lasciati “da soli” questi fratelli e sorelle infermi? Ma allora abbiamo tradito la nostra intima vocazione presbiterale se non ci siamo stati fisicamente accanto ai defunti e alle loro famiglie? Sì, li abbiamo lasciati soli e abbiamo tradito la nostra vocazione se non crediamo alla forza della preghiera e dell’intercessione nella celebrazione eucaristica che noi presbiteri abbiamo la grazia di poter celebrare (pur senza assemblea fisica) con loro e per loro. Sì, li abbiamo lasciati soli e abbiamo tradito la nostra vocazione se non abbiamo avuto la garbata gentilezza di una presenza rispettosa e amorevole prima, durante e dopo il lutto e non siamo riusciti a vivere e ad aiutare a vivere in maniera diversa la mancanza di una veglia e di una celebrazione eucaristica per le esequie. Sì, li abbiamo lasciati soli e abbiamo tradito la nostra vocazione se non riusciamo a immaginare già adesso la modalità con cui aiutare – una volta terminata la fase di emergenza – le nostre comunità a celebrare ritualmente il momento comunitario di affidamento del fratello e della sorella defunti. Sì, li abbiamo lasciati soli e abbiamo tradito la nostra vocazione se pensiamo che la Chiesa siamo noi e la grazia di Dio arriva sempre e solo dove arriva il parroco della parrocchia.
Per questo – oltre ai nostri confratelli che stanno continuando a essere presenti come cappellani negli ospedali – vada un grazie tutto speciale ai medici, infermieri, personale ospedaliero (ma anche operatori delle onoranze funebri) che, non solo (ed è già tantissimo!) continuano a prendersi cura e ad accompagnare ogni uomo e donna come fossero loro padre e loro madre, ma, condividendo la fede nel Risorto, a nome della Chiesa continuano ad accompagnare con la presenza di una preghiera, di una benedizione, di parole di conforto cristiano un morente, come se fosse un loro parrocchiano.