Prendersi cura dell'uomo
Per #IlFilodellememorie la testimonianza di Massimo Gandolfini: "Quando tutto era concluso, ancora qualcosa si poteva fare: scendere in obitorio, con le bare allineate, nel silenzio più totale e recitare l’ultimo affidamento alle mani di Colui che tutti ama come figli"
Ho sempre avuto la sensazione che un evento tanto drammatico è di fatto incomunicabile. Ho capito bene che cosa sia quella che noi uomini di neuroscienze chiamiamo “coscienza fenomenica” e che Leopardi descrisse in un suo verso diventato famoso: “Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in core”. Mente e cuore: due organi e due funzioni assalite dall’emergenza dell’infezione, molte volte poco in sintonia l’uno con l’altro. La mente, il cervello, la cultura scientifica protesi nello sforzo di curare malati gravissimi; cuore, sentimento, passione protesi nello sforzo di dare un senso a tutto ciò che stava accadendo e assicurare calore umano, condivisione, affetto anche e soprattutto quando la medicina non aveva più nulla da dire. Abbiamo toccato con mano la nobiltà della professione medica, nata con quel sapiente giuramento che ci lega al paziente per assicurargli ogni sforzo per difendere la sua vita e la sua salute.
Nei corsi di bioetica si insegna la differenza fra due verbi inglesi simili nella fonetica, ma profondamente diversi nella sostanza: “to cure” e “to care”. Il primo sta da dire l’impresa tecnico scientifica focalizzata a combattere la malattia, con medicine, interventi chirurgici ed ogni presidio sanitario utile; la seconda – to care – sta a dire le necessità della prima con l’aggiunta di una componente fondamentale: il prendersi cura della totalità della persona, che non è solo un corpo da trattare, ma è un “fratello” con cui condividere un tratto delicato della sua vita. Dante ci ha insegnato che “amor che a nullo amato amar perdona”, perché l’uomo funziona proprio così: sentirsi amato ed amare. Guardando quei volti sofferenti, ho pensato che potevo esserci io e mi sono chiesto che cosa avrei desiderato. La prima risposta è automatica: essere curato bene, essere aiutato a soffrire il meno possibile, guarire. La seconda: non essere lasciato solo. Sono state le linee guida della mia condotta in questi mesi: quando la medicina non poteva far altro che dichiarare la sua impotenza, i gesti di umano affetto sono diventati una vera medicina dell’anima per tutti, per il malato e per il medico. Ho visto un ausiliario allungare un rosario nella mano di un morente… e le lacrime cadevano come gocce di pioggia. Poi, quando tutto era concluso, ancora qualcosa si poteva fare: scendere in obitorio, con le bare allineate, nel silenzio più totale e recitare l’ultimo affidamento alle mani di Colui che tutti ama come figli. Un’esperienza incancellabile, che spero tanti altri colleghi medici abbiano avuto la fortuna di vivere, perché si tratta del cuore della nostra professione, oggi tanto umiliata da ignobili tentativi di trasformarci in autori di morte.