Pilastro, temuto, della cultura
Aggiungere qualcosa a quanto si è letto in questi ultimi giorni su Renato Borsoni, figura mitica di una cultura non solo cittadina, sembra impossibile. Si può però attingere ai ricordi, per aprire altre finestre sulla sua personalità
Aggiungere qualcosa a quanto si è letto in questi ultimi giorni su Renato Borsoni, figura mitica di una cultura non solo cittadina, sembra impossibile. Si può però attingere ai ricordi, per aprire altre finestre sulla sua personalità. Conosciamo la sua poliedrica attività nella quale è sempre riuscito a lasciare tracce e indicazioni nette, incisive, potenti. Uomo scrupoloso ed esigente con gli altri, lo era soprattutto con se stesso. Severissimi i suoi grandi occhi scuri, spesso austero l’aspetto; potremmo dire, con un sorriso, che aveva una sembianza morbidamente mefistofelica. Tanto che alcuni, scrutando le belle foto che lo ritraggono negli ultimi tempi, troverebbero somiglianze con quei magnifici vecchi delle saghe di Tolkien o J. K. Rowling: Gandalf o Albus Silente. Personaggi come lui mai accomodanti, eppure indispensabili. Pilastro anche temuto della vita culturale cittadina, era capace di dolcezze improvvise, come quando citava il suo amato Carducci o raccontava della mamma persa a soli sei anni. E soprattutto quando ricordava le scelte perigliose affrontate con lungimiranza come direttore del Teatro Stabile cittadino o del Metastasio di Prato. Renato Borsoni era figura necessaria alla città, anche negli ultimi tempi.
Una sua riflessione, battuta o pubblicazione non lasciava indifferenti. Aveva anche talenti bizzarri, come quello di saper scrivere con entrambe le mani e al contrario. Oppure di far dimenticare, come attore elegante dalla bella voce, quella erre moscia che avrebbe fatto inorridire un qualsiasi insegnante di dizione. Soprattutto allora. Oggi questa particolarità ci sembra irrilevante, ma allora aveva il sapore dell’avanguardia, dell’andare oltre l’imperfezione. Così era Renato Borsoni: imponeva, si imponeva. E si divertiva molto quando, nel bizzoso mondo del teatro, attori, scenografi, registi capricciosi si accapigliavano per un nonnulla. Si divertiva Borsoni, ma era capace di sovrintendere a tutto questo movimento di energie e fragilità creative con maestria. Quando creò il “Progetto Adelchi” nei luoghi in cui scene di questa tragedia manzoniana erano ambientate, aveva ben chiaro cosa significasse dare voce, attraverso il teatro, al valore di una città, alla sua storia e al suo presente, e questa fu un’invenzione unica nel panorama nazionale. Non si può parlare di Renato Borsoni senza citare la sua inseparabile compagna, l’attrice Marisa Germano: un sodalizio, il loro, in cui la passione comune per il teatro ha fatto da sfondo ad una lunghissima storia d’amore e di tenerezza.
I due figli: Corrado, che tanto gli somiglia fisicamente e Camilla, che tanto gli somiglia per irrequietezza curiosa. E la sua grande famiglia attorno alla quale si sono sempre stretti i tanti amici che questa vita preziosa ha fatto fiorire. La tentazione di citare la battuta di un personaggio teatrale per chiudere questo ricordo è grande, ma Lear potrebbe far arrabbiare Prospero, Amleto riderebbe di Don Chisciotte e Sigismondo de “La vita e sogno” si dispererebbe di non essere stato interpellato, per non parlare degli altri: tutti si incapriccerebbero, proprio come accadeva nelle risse che Renato Borsoni, in teatro, amava tanto placare e, forse, anche creare. Sarebbe bello, invece, arrivassero alle sue orecchie tutte le appassionate parole dette per lui in questi giorni e noi potessimo scorgere un’ultima volta, come dice Ungaretti, un lampo di meraviglia nei suoi grandi occhi: “Sorpresa/ dopo tanto/ d’un amore/ Credevo di averlo sparpagliato/ per il mondo”. La poesia si intitola “Casa mia” ed è tratta dalla raccolta “Vita d’un uomo”.