Per un'educazione al silenzio
Nella società definita complessa l’incomunicabilità è anche paradossalmente dovuta ad un uso sovrabbondante delle parole: se tutte quelle che usiamo ogni giorno servissero per farci capire ci sarebbe più concordia nella reciprocità del vivere. Ma le parole si aggiungono ai suoni e questi ai rumori in un crescendo assordante che pervade la nostra quotidianità.
Siamo accompagnati da un sovrastante dominio del mondo esterno su di noi. Anche se non ce ne accorgiamo siamo costretti a rapportarci e misurarci continuamente con messaggi, richiami, stimoli, sollecitazioni, impulsi che ci raggiungono e che, volenti o nolenti, condizionano la nostra vita e le nostre abitudini fino regolarne i tempi e gli spazi di manifestazione.
Anche negli apprendimenti scolastici vige questa regola: anzi l’educazione altro non è che un passaggio dall’esterno all’interno di nozioni, norme, conoscenze, comportamenti, regole, informazioni, dati, valori. Nei chiaroscuri della mia ormai lunga memoria professionale in campo scolastico non posso dimenticare la metaforica rappresentazione della tabula rasa, di quel luogo immaginario della mente e dell’anima inizialmente vuoto dove si incidono ogni giorno i segni dell’apprendimento, del lento processo di sedimentazione della cultura che sta prendendo corpo dentro di noi.
Ma con altrettanta chiarezza ho ben presente quanta parte di questo lungo travaso vada perduta per un eccesso di contenuti e per un metodo didattico più centrato sulla trasmissione che sull’assimilazione. Non tutto quello che ci è trasmesso viene comunque metabolizzato: di questo non sempre gli insegnanti tengono conto. Ci sono momenti di inclusione alternati da pause di accomodamento e riflessione. La cultura va continuamente rielaborata in un processo di personalizzazione delle cose apprese: la formazione di una persona non avviene per ingolfamento del contenitore ma per selezione dei contenuti. Potremmo anzi dire che la cultura è ciò che rimane quando si è dimenticato il resto. Una buona educazione non consiste tanto nel riempire un secchio ma nell’accendere un fuoco: è la motivazione la forza straordinaria che spinge ad imparare.
Ora io credo che la scuola dovrebbe prestare più attenzione a questo delicato passaggio di interiorizzazione del sapere, dedicando più tempo alla rielaborazione del soggetto di quanto ne viene solitamente riservato al travaso dell’oggetto. Se la costruzione del pensiero critico è la finalità fondamentale di ogni seria formazione allora il metodo da scegliere è quello che stimola la riflessione.
Come ha scritto Marcel Proust “il vero processo di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi”. L’eureka è la lampadina dell’intuizione che si accende quando possiamo dire: “Ho capito!”. Questo non avviene necessariamente al termine di una lezione o al compimento di un ciclo di studi ma in qualunque momento, all’affiorare di un’idea. Io credo che per facilitare questo percorso e per consentire il raggiungimento di questo traguardo dobbiamo attenuare molta parte del “chiasso” che c’è nelle nostre scuole, rendere più soffuse le luci esterne affinché abbia ad accendersi la lampadina che c’è dentro la testa.
Alcuni insegnanti vanno fieri della gran mole di lavoro materializzata dai loro alunni: occorrerebbe discernere quanta parte di questa produzione è ascrivibile alla conoscenza, quanta alla comprensione, quanta alla applicazione, quanta alla personale rielaborazione. Riempire le teste per poi riempire i quaderni: ma quanto di questo sapere potrà essere poi riversato nella vita?
L’apprendimento non è una gara lineare a tempo ma una corsa ad ostacoli: c’è il momento della velocità, del rallentamento, poi quello del salto. E la cultura non è tanto un “aut-aut” quanto piuttosto un “et-et”. Come argutamente sottolineato da Perelman “un percorso di apprendimento assomiglia più al volo di una farfalla che al tragitto di un proiettile”.
Io penso che dovremmo concedere più tempo alla riflessione di quanto ne dedichiamo alla mera comunicazione. Mi sembra opportuna una riconsiderazione dei momenti di pausa, finora ritenuti ancillari agli apprendimenti veri e propri.
Soprattutto – nella mia rappresentazione tipico-ideale di scuola – ritengo importante che si possa ritagliare uno spazio al tempo del silenzio come luogo della memoria, della riflessione, della rielaborazione, dell’organizzazione e della connessione delle idee. E’ un ragionamento un po’ controcorrente rispetto alle teorie – finora prevalenti – della socializzazione e del lavoro di gruppo, delle “dinamiche relazionali” e del comportamentismo. Una pista diversa che riscopre però sentieri antichi: quelli della personalizzazione dei processi di apprendimento e di formazione, della interiorizzazione, della valorizzazione delle potenzialità di ciascun individuo nell’autonomia e originalità del suo pensiero.
Non sono in discussione le regole consolidate della cultura trasmessa, le nozioni: un’equazione algebrica non ammette divagazioni - o riesce o non riesce - una regola grammaticale va applicata, la data del Congresso di Vienna non può essere modificata.
Ma i dati, le regole e le nozioni subiscono un incessante processo di rielaborazione mentale nella positiva contaminazione tra il sé e l’altro da sé. Una rivisitazione personale che aggiunge immaginazione e fantasia all’oggetto del pensare. Nel silenzio della parola il pensiero non è latente o inespresso ma si consolida nella riflessione, produce rappresentazioni mentali e iconiche, costruisce un mondo di idee del tutto singolari e uniche in ciascuno di noi.
Il silenzio tacita la parola ma fa correre il pensiero sulle ali della fantasia. Fantasia che – come ebbe a scrivere un certo Albert Einstein – spesso è più importante della conoscenza.