Padre Ottorino sognava la felicità
Ottorino Marcolini, prete nella Congregazione dei Padri dell’Oratorio della Pace, era un cultore di carità e di umanità, un grande costruttore di villaggi per le famiglie, uno che i giovani di oggi non esiterebbero a definire unico, speciale, tosto, rampante, un vero e proprio mito
Quarant’anni fa salutò la compagnia e se ne andò a cercare la fetta di cielo che di sicuro il buon Dio gli aveva riservato. Allora pianse la città dell’uomo, che aveva servito e contribuito a rendere vivibile e piansero i molti che grazie a lui erano passati dalla condizione di “villani” in cerca di fortuna a quella di “cittadini”, integrati e proprietari di una casa, una di quelle che proprio lui, “prete ingegnere matematico” , aveva costruito nelle periferie ben sapendo che per quietare l’ansia del paesano sradicato dalla sua terra era necessario offrirgli almeno un tetto e un orto in cui potersi sentire ancora a casa. Ottorino Marcolini, prete nella Congregazione dei Padri dell’Oratorio della Pace, era un cultore di carità e di umanità, un grande costruttore di villaggi per le famiglie, uno che i giovani di oggi non esiterebbero a definire unico, speciale, tosto, rampante, un vero e proprio mito. Nato a Brescia il 9 marzo 1897, studiò al Tartaglia, si laureò a Milano, lavorò all’Officina del Gas prima di diventare prete, servì la Patria, arricchì le file della Resistenza, provò sulla sua pelle gli orrori della prigionia e poi, dopo la tragedia della guerra, la gioia di costruire case e villaggi per la gente più povera e bisognosa. È morto il 23 novembre 1978, vittima di un incidente stradale, lasciando in eredità gli anni dedicati agli “altri”, sconosciuti abitanti di città e paesi ma per lui fratelli e compagni di viaggio. Di questo “prete scomodo e a volte anche ingombrante, buono come il pane con gli umili ma rude e crudo con i potenti”, ricordo il primo incontro.
Padre Marcolini entrò nel cantiere dove ero ad attenderlo come una furia scatenata. Reduce da un incontro con Bruno Boni, sindaco della città, non andato a buon fine, era arrabbiato col mondo e, di conseguenza, anche con me che ero lì per intervistarlo. Quello che mi disse a proposito di case, di operai e del valore dell’uso dei giornali appartiene al passato, invece, è di attualità il modo in cui mi spiegò perché si era fatto prete. Mi prese sotto braccio e incominciò a parlarmi di un ragazzo cresciuto all’oratorio della Pace, allevato a libri e utopie, fortificato alla scuola dell’impegno cattolico grazie a compagni di viaggio del calibro di Giovanni Battista Montini, Giulio Bevilacqua, Andrea Trebeschi, Peppino Tedeschi, Ercoliano Bazoli e tantissimi altri, “loro sì – mi disse – tipi davvero speciali”. Continuò poi a parlarmi di un giovane che dovette mischiare le sue pacifiche speranze con gli orrori di due guerre e con le miserie di una dittatura “inutile e nemica del popolo”, di una vocazione al sacerdozio fiorita tra le macerie seminate dal primo conflitto mondiale, di due diplomi di laurea conseguiti, uno per passione e l’altro per contribuire al sostentamento della famiglia. Poi, anche di un prete quasi cinquantenne, con alle spalle esperienze pastorali e associative “di un qualche peso”, che sognava “una casa, economica ma di proprietà, per tutti”, che non sapeva rassegnarsi alle lungaggini della burocrazia amministrativa e che voleva circondare la città di villaggi abitati da gente felice perché ricca di sogni e di speranze… Così allora.
Adesso, sarebbe invece interessante ripensare alla sua opera di costruttore, magari per scoprire che l’emergenza ha cambiato solo fisionomia. Oggi, infatti, a chiedere case non sono i contadini in sovrannumero e gli operai del primo boom economico, ma gli immigrati, nuovi poveri con la pelle bianca, nera o gialla, nuovo popolo in cammino, “fratelli – come diceva padre Ottorino Marcolini – da amare, accogliere e rispettare”.