Omran come Aylan
E' passato un anno dalla fotografia di Aylan, il bimbo siriano morto sulla spiaggia turca nel tentativo di scappare dalla guerra.
Quasi un anno dopo (era il 2 settembre 2015) la “foto simbolo” del dramma
dei profughi che fuggivano dalla guerra cercando di raggiungere le coste della
Grecia, abbiamo una nuova “foto simbolo” a dirci che la guerra c’è ancora e che
continua a mietere vittime innocenti. Le foto sono immediate, fanno il giro del
mondo in un baleno. Non serve spremersi le meningi per trovare parole che
raccontino l’orrore, quando un’immagine può rapidamente comunicare tutto quel
che c’è da dire. E
allora, come nelle Olimpiadi, c’è la corsa allo scatto definitivo, quello che
vale la riproducibilità immediata su tutti i mezzi di comunicazione, che
acquista un posto nell’immaginario collettivo e, forse, nella Storia.
Come la bambina vietnamita che corre ustionata dal napalm o il bimbo ebreo con
le mani in alto al ghetto di Varsavia. Quello che stona, ancora una volta, è
che da un lato serve un’immagine d’impatto per smuovere gli animi, dall’altro
sappiamo per esperienza che passata la prima ondata di utilizzo mediatico tutto
tornerà nel solito silenzio. Il dolore non basta se tutto resta come prima.
Oggi “The death of Aylan Kurdi” (“La morte di Aylan Kurdi”) è una pagina su
Wikipedia. Leggerla è una maniera istruttiva di ricostruire i passaggi
fondamentali non solo della breve vita del bimbo, ma soprattutto del clamore
che suscitò la foto del suo piccolo corpo disteso sulla sabbia. Dalle prese di
posizione dei leader politici al dibattito sull’opportunità di pubblicare
un’immagine così terribile, dove la violenza era tanto più forte perché se ne
mostravano gli esiti. Tutto questo sembra lontano, un eco di qualcosa che sì,
era avvenuto, ma non avevamo risolto? Non avevamo dato casa ai profughi? E poi
tutto era andato a posto no? Sì i bombardamenti, certo, ma i possibili
attentati in casa nostra?
Anche se Internet e la televisione ci consentono di accedere in tempi
brevissimi a tutte le informazioni che desideriamo su qualsivoglia parte del
mondo, in realtà ci si limita a misurare l’importanza dei fatti sulla base del
tempo e dello spazio che viene loro dedicato sul nostro media di riferimento.
Così, passata l’indignazione generale per Aylan, una volta spente le telecamere
sull’esodo dei disperati che premevano alle frontiere o si consumavano nei
campi profughi, le notizie sulla guerra che continua a infuriare in Siria
appaiono come un rumore di fondo su qualcosa che è lontano e in fondo non ci
riguarda troppo. Nonostante gli appelli continui di Papa Francesco alla
pace e il suo gesto di accoglienza verso alcune famiglie di rifugiati,
l’attenzione dell’opinione pubblica è altrove. Eppure solo dieci giorni
fa un bombardamento ha colpito un ospedale pediatrico supportato da Medici
senza frontiere nella città di Millis: sono morte 13 persone tra cui 5 bambini.
Proviamo a fare un esercizio di identificazione e immaginiamo la notizia come
se fosse stato bombardato il Bambin Gesù o il Gaslini o il Meyer o il
Pausilipon. Da una parte all’altra del mondo i bambini sono gli stessi,
cambiano i visi ma si assomigliano tutti. Così, Omran con i suoi 5 anni pieni
di polvere e sangue, seduto in ambulanza con lo sguardo incredulo e impietrito,
è uno dei nostri bimbi del terremoto, uno dei bimbi di Nizza. Oggi il bimbo di Aleppo è “virale”. La sua foto, come già quella di Aylan, è in
prima pagina su tutti i giornali europei ed è gara a diffonderla sui social
network, magari ritoccata e messa tra i potenti della Terra che discutono. Quanto
durerà questa volta la mobilitazione da tastiera?(Emanuela Vinai)