Occupazione e responsabiltà
Non ho dubbi sull’importanza di tenere monitorato costantemente l’andamento dell’occupazione, giovanile e non, ma sarebbe auspicabile invece che il tema della disoccupazione giovanile sia vissuto con la consapevolezza che è necessaria una assunzione di responsabilità collettiva di ogni soggetto istituzionale e sociale
I recenti dati diffusi dall’Istat sui temi occupazionali al mese di luglio, rilevano un calo degli occupati rispetto al mese precedente evidenziando in modo particolare un aumento di due punti della disoccupazione giovanile (fa riflettere l’inserimento dei 15enni in queste statistiche, che penseremmo invece sui banchi di scuola a rafforzare il proprio bagaglio di conoscenze per reggere meglio le sfide che la vita inevitabilmente porrà loro). Il ministro Poletti getta acqua sul fuoco e mette in evidenza un trend positivo se si guarda ad un più lungo periodo, ma c’è chi ne approfitta e usa questi dati per un giudizio severo sull’intera politica occupazionale di questo esecutivo. Niente di nuovo dunque in un dibattito che mese su mese fornisce argomenti e condizioni alterne ai vari attori, derivati ad una economia sempre più dinamica e variabile.
Non ho dubbi sull’importanza di tenere monitorato costantemente l’andamento dell’occupazione, giovanile e non, ma sarebbe auspicabile invece che il tema della disoccupazione giovanile sia vissuto con la consapevolezza che è necessaria una assunzione di responsabilità collettiva di ogni soggetto istituzionale e sociale, perché se oggi è particolarmente acuito dalla crisi in atto da diversi anni, la sua origine risale nel tempo e nelle troppe cose non fatte negli anni. Il cardinale Martini, già nel 1986, parlava della disoccupazione giovanile come “una delle più gravi emergenze etico-civili del nostro Paese”. Uno studio, più recente, della comunità europea rileva come questo tema coinvolga gran parte dei Paesi della comunità (con oltre 5 milioni e mezzo di giovani disoccupati) che la crisi ha acuito e che colpisce in misura maggiore i paesi dell’area sud europea. Questo significa assolvere gli attuali attori dalle loro responsabilità? Nemmeno per sogno, significa però che nessuno può chiamarsi fuori in una partita che non è solo economica, ma appunto etica e civile, perché queste generazioni possano sentirsi incluse in un futuro che, proprio perché è loro, non li può vedere estranei ai processi in atto. Gli interventi necessari sono diversi (e conosciuti): da quelli diretti dell’economia (investimenti pubblici e privati), a quelli sul ruolo della scuola e il suo rapporto con il mondo del lavoro che nel nostro paese rappresenta una forte criticità.
Non a caso là dove, Germania in testa, meglio funziona questo rapporto (stage, alternanza scuola lavoro, formazione professionale nei luoghi di lavoro) minore è il livello della disoccupazione giovanile. La forma dei contratti di lavoro, che per i giovani è quasi sempre a tempo determinato che li rende per questo più esposti a periodi di disoccupazione, mina inoltre la voglia di scommettere su quella centralità del lavoro che la chiesa stessa pone come elemento fondamentale per la vita (non solo economica) della persona e di una comunità. Pesa l’assenza di vere politiche attive, cioè un sostegno nella ricerca di un nuovo lavoro e/o nella possibile riqualificazione, significa un ruolo più dinamico dei centri per l’impiego; c’è poi il tema dell’apprendistato che, fra abusi e abbandoni, fatica a riprendere quel ruolo che in passato è stato garanzia di ingresso a pieno titolo nel luogo di lavoro. Inoltre, con un po’ più di coraggio il percorso del patto generazionale (uscita graduale dell’anziano e l’inserimento in automatico di un giovane) può indicare nuove strade possibili. Questa è solidarietà sociale. È la risposta alla domanda su quale prezzo un Paese è disposto a pagare per assicurare un futuro meno precario alle proprie giovani generazioni.