Non è un Paese per giovani
Quando parliamo di politiche giovanili o sostegno al mondo dei giovani raccontiamo il nulla: gli enti locali non hanno risorse da spendere, vengono riproposti incentivi a progetti temporanei o a impieghi socialmente utili senza sbocchi reali nel mondo del lavoro
Se c’è una cosa che dovremmo aver capito delle dinamiche fondamentali dell’economia è che più una cosa è rara più vale. E se questo assunto fosse vero il nostro Paese dovrebbe avere una cura particolarissima dei giovani: del resto in Italia gli ultrasessantacinquenni sono il 22% abbondante della popolazione (3 milioni in più degli under 18). Invece pare proprio che non sia così: l’ultimo bollettino Istat sull’occupazione raccontava della disoccupazione dei giovani (tra i 15 e i 24 anni) ancora al 39,4 % e del 18,9% per quelli tra i 25 e 34 anni, su una base totale del 11,4%. Molti dati per dire, ancora una volta, che il numero dei giovani che non ha niente da fare è grandissimo, in un Paese che di giovani dovrebbe avere estremamente bisogno. Inutile dire che essere in pochi, per i giovani, è un grande problema: significa essere meno rappresentati (alle elezioni), significa essere meno visibili e meno interessanti per chi deve decidere. Ma come è possibile una situazione del genere? Sappiamo bene, è ancora l’economia a insegnarcelo, che non è impossibile creare fattori di turbamento per far aumentare o perdere valore a qualcosa; temo che il mondo adulto ne abbia inventato uno geniale: in effetti se i giovani sono pochi, sono invece in moltissimi a sentirsi giovani, a comportarsi da giovani, a fare i giovani. E se il tempo della giovinezza deve essere quello dello sguardo ai genitori, al mondo, alla società adulta per immaginarla migliore e trasformarla, come è possibile farlo se una parte significativa del mondo adulto non accetta di caricare sulle proprie spalle il ruolo che le spetta?
Quando parliamo di politiche giovanili o sostegno al mondo dei giovani raccontiamo il nulla: gli enti locali non hanno risorse da spendere, vengono riproposti incentivi a progetti temporanei o a impieghi socialmente utili senza sbocchi reali nel mondo del lavoro, si continua a vagheggiare il reddito di cittadinanza che, certamente allevia un problema, ma, allo stesso tempo, tende a rallentare qualsiasi processo di autonomia e presa di responsabilità. Se tutto questo è vero, ha ancora senso parlare di sostegno ai giovani, ha ancora senso domandarsi se e come fare qualcosa per loro? Credo di sì. Per iniziare basterebbe forse fare la propria parte di adulti, cioè di chi è “ad-olitus”, finalmente cresciuto, diventato grande: capace di autorità e responsabilità. Almeno con questo si potrebbe iniziare.