Mino e il laico Concilio mancato della Dc
Sono passati 10 anni, proprio in questi giorni, dalla scomparsa di Mino Martinazzoli. Dieci anni che non hanno offuscato il suo ricordo, né sottratto una paradossale attualità alle sfide che egli si trovò ad affrontare, a perdere e a veder poi rifulgere. Sì, perché va riconosciuto con onestà che la sua grande sfida – quella per il ripensamento della Dc – egli non la vinse. E anzi portò dentro una battaglia quasi impossibile il suo tormento di pensatore e la sua nobiltà di servitore dello Stato. Ma non poté capovolgere il verso della storia. Di questo esito, molti hanno dato colpa a lui. Perché poco assertivo, poco disinvolto, poco fortunato, poco al passo coi tempi. Eppure erano proprio queste le sue paradossali qualità. Di essere appunto un uomo che evitava di gettarsi a capofitto nel dirupo delle parole d’ordine più facili e preferiva semmai cimentarsi con le difficoltà che la sua ambizione ideale gli poneva davanti. Socrate diceva dei politici ateniesi: “Li incalza l’acqua che scorre nella clessidra”. Fatto sta che al momento della leadership martinazzoliana l’acqua era già scesa quasi tutta e la clessidra stava per rovesciarsi. Per questo, molti lo hanno raccontato come il Celestino V della storia democristiana. Io credo che ne fosse semmai il Giovanni XXIII, il grande pontefice che ebbe l’intuizione del Concilio. Anche se non poté esserne il Paolo VI, che quei lavori portò a buon fine. Fu appunto un laico concilio politico quello che mancò all’ultima Dc. Nonostante Mino.