Lettera al papà di un figlio disabile
Caro papà di un figlio disabile, sono il papà di Riccardo. Per dei genitori avere un figlio disabile è devastante. Riccardo ha una grave lesione cerebrale, dovuta alla prematura nascita e a una emorragia che l’ha reso idrocefalo con derivazione. Soffre di epilessia, che è abbastanza sotto controllo con i farmaci. Ha un apprendimento prescolastico, fa disegni a raffica, scrive in stampatello il suo nome, e fa fatica nei movimenti, il che lo obbliga a usare spesso la carrozzina. Quando ti dicono, “Hai questa croce perché la sai portare”, è una grande stupidaggine. Non si nasce capaci o preparati a portare nessuna croce. Si impara a convivere, questo sì. La reazione di quel giorno, quando è nato, è un miscuglio di emozioni, in cui dominavano la rabbia e la consapevolezza di qualcosa di assurdo; perché proprio a me? Quando sei in attesa di un figlio, ti fai dei film, ti immagini il futuro, crescono le aspettative.
Ma improvvisamente realizzi, però, che ti dovrai occupare di lui per sempre, e questo “per sempre” è devastante. E si prova tanta rabbia non solo perché c’è questo “per tutta la vita”, ma anche per il fatto che a Riccardo sia stato tolto tantissimo. Non si saprà mai cosa sarebbe potuto diventare. Accettare la disabilità del proprio figlio, è un esercizio impossibile da risolvere. È qualcosa di pazzesco. Come pazzesco e totale è l’amore che si ha per lui. Accettare è però diverso, questa rabbia ti resta dentro, ma è qualcosa che poi ti serve per andare avanti. Molti sono gli ostacoli che devi affrontare, moltissime le code che devi fare, le liste di attesa. Non è facile parlare di questo. Non è facile trasmettere quello che senti dentro. Ci vuole coraggio a parlare delle proprie fragilità e debolezze, ammettere che si ha, per esempio, ancora rabbia dopo tanti anni. Se scorro gli anni passati mi appaiono molti flash. Come quell’incontro in ascensore in ospedale, dopo alcuni giorni dalla nascita di Riccardo. C’era il primario del reparto che mi ha detto: “Riccardo, sono realista, speriamo possa muovere un dito”. Alla faccia del crudo realismo. Dopo un anno dalla nascita le prime crisi epilettiche. Le corse in ospedale.
Non riuscivano a trovare il farmaco che le bloccasse. Sei mesi di ospedale continui. Poi la combinazione di due farmaci le ha bloccate. Ogni tanto ritornano, si cambia un farmaco e si va avanti. Poi l’inserimento alla Nostra Famiglia e la paura di lasciarlo per la prima volta da solo. La scuola materna vissuta con trepidazione. Da questo inserimento in poi i passaggi sono sempre stati traumatici, quasi a voler bloccare il tempo. Stava bene alla materna, perché imbarcarci alle elementari, con nuovi insegnanti e nuovi compagni. Così per le medie, così per le superiori. Infine, l’inserimento nella cooperativa La Scintilla. E le commissioni per l’accertamento della disabilità, prima ogni 3, poi ogni 5 anni per confermare solo l’evidenza. È la legge, ma credetemi è la cosa più umiliante che possa capitare. Ogni volta a ripetere le stesse cose. Poi finalmente il decreto definitivo a 18 anni. Ma non finisce qui, capita anche di essere fortunati e di essere ripescati a campione e a 22 anni si ritorna in commissione medica. Quando si dice la fortuna! Quando la disabilità entra nella tua famiglia, la tua prospettiva cambia completamente e ti condiziona per sempre. E qui si aprono due scenari. O stai a casa, nascondi tuo figlio è aspetti che qualcuno faccia qualcosa per te. Lo Stato, la Regione, il Comune… Oppure esci fuori, porti fuori tuo figlio e ti organizzi, fai qualcosa, incontri altre famiglie e costruisci il “dopo di noi”. In tutto questo percorso arrivano quei momenti, improvvisi, in cui tutto scompare: un sorriso, un abbraccio, un piccolo passo in avanti. Come quella volta quando eravamo alla recita di fine anno, lui era in quinta elementare, in palestra c’era tantissima gente, in pratica tutto il paese. Riccardo doveva dire tre parole, appena dette partì un applauso assordante e interminabile. Non ricordo neanche più le parole di Riccardo, mi ricordo solo quell’applauso che non finiva più e che aveva interrotto la recita, così la commozione ti prende la gola. Caro papà di un figlio disabile, questo non ha nessun prezzo.