Lavoro: voucher o non voucher?
Quello sui voucher e sul referendum che li vorrebbe cancellare è un altro dibattito destinato a rinvigorire lo schematismo ideologico che in Italia pesa sulle questioni del lavoro. Si sostiene che destrutturino il mercato, scoraggino assunzioni a tempo indeterminato, aggirino i contratti di lavoro esistenti
Quello sui voucher e sul referendum che li vorrebbe cancellare è un altro dibattito destinato a rinvigorire lo schematismo ideologico che in Italia pesa sulle questioni del lavoro. Si sostiene che destrutturino il mercato, scoraggino assunzioni a tempo indeterminato, aggirino i contratti di lavoro esistenti. È uno scontro fatto di proclami che fa comodo a tanti datori di lavoro mai diventati realmente imprenditori e che, sull’altro versante, consente a chi pretende di leggere il lavoro di oggi con i paradigmi delle conquiste del Novecento di mettere qualche puntello alle sue barricate. I voucher sono nati nel 2003 con la Legge Biagi per dare legittimità, tutela previdenziale e infortunistica a rapporti di lavoro occasionali e accessori dove il pagamento in nero era la norma. Quali? Lavori domestici, di giardinaggio, lezioni private, lavoro prestato da studenti, attività agricole stagionali effettuate da pensionati, casalinghe e studenti, lavoro prestato nelle imprese familiari; consegna porta a porta e vendita ambulante di stampa quotidiana e periodica; lavoro generico prestato da pensionati.
Con il Governo Monti sono intervenute scelte diverse e l’utilizzo dei voucher è stato liberalizzato. Quel che deve far riflettere non è dunque l’aumento percentuale del ricorso ai buoni lavoro (che depone invece a favore della loro finalità virtuosa) e nemmeno la strampalata idea che la crescita dell’occupazione è falsata dal fenomeno (gli 88 milioni di buoni riscossi nel 2015 corrispondono in un anno a circa 47mila posizioni lavorative a tempo pieno, vale a dire lo 0,2% dei 22 milioni di italiani che lavorano regolarmente), ma casomai la discordanza tra voucher venduti ed effettivamente utilizzati (che potrebbero servire a coprire in caso di controlli rapporti di lavoro irregolari) e la loro distribuzione per attività d’impiego. Quest’ultimo aspetto è particolarmente indicativo: i dati mostrano che oltre la metà dei voucher è finito proprio nei settori oggetto della liberalizzazione del 2012, con un evidente snaturamento dell’istituto: edilizia, trasporti, industria, turismo e commercio. Lo scorso anno il Governo ha inserito un primo correttivo rendendo obbligatoria la tracciabilità dei prestatori e delle prestazioni. Rimane aperta la rideterminazione degli ambiti di utilizzo, necessaria a riportare i voucher alla loro funzione originaria e, forse, ad evitare il riarmo della gioiosa macchina da guerra del referendum.