La sindrome da vita sospesa
“Con i se non si fa mai la storia, e nessuno può dire con serietà quello che sarebbe avvenuto ove la storia non avesse camminato come effettivamente ha camminato”. Così parafrasava il più noto proverbio: “Con i se e con i ma non si fa la storia”, esplicitandone il senso, Alessandro Aldo Cutolo conduttore televisivo, attore e storico italiano. Già, perché il tempo presente, prima che divenga storia, va vissuto per qual che è e non per quello che ci sarebbe piaciuto fosse nelle condizioni e negli eventi. Se non ci fosse stata la pandemia, come sarebbe stato il 2020? Come sarebbe stata la nostra quotidianità? Cosa avrebbero vissuto le nostre comunità? In questi giorni ci potremmo forse chiedere: quale sarebbe la cronaca se il governo Conte non avesse avuto la fiducia in Parlamento? Saremmo andati ad elezioni?
Tra parentesi: nulla è ancora escluso. Resta il fatto che i “se” i “ma” non servono a nulla. Conta mettere invece al centro di questo nostro tempo, oggettivamente così complicato, il senso di realtà e la capacità di ciascuno di noi di stare dentro i fatti con scelte e azioni adeguate alle circostanze. Dopo quasi undici mesi di emergenza sanitaria, che sempre più si trasformerà in crisi economica (in primavera si prevedono quasi 1 milione e mezzo di licenziamenti), potrebbe colpirci una sorta di nuova emergenza esistenziale nella forma di una “sindrome” da vita sospesa, di malessere interiore che al blocco, necessitato da Covid, delle relazioni sociali, delle attività umane, del muoversi e incontrarsi aggiunge una specie di paralisi della voglia di vivere, del dovere di affrontare le sfide e dell’impegno a fare del nostro meglio per “stare dentro” il presente sfruttandone a pieno quanto di buono esso ci offre. Se infatti è evidente che l’inizio della pandemia in primavera, con il suo carico di dolore e di morte, ci abbia provocato uno choc personale e collettivo, altresì, il permanere in questa condizione di sospensione della vita, pur in tempo di emergenza, non è più giustificabile, soprattutto dalle forze sane della società.
Protetti i più fragili, infatti, si pone urgente la questione di metterci in moto, di non restare “sul divano” in attesa che le cose migliorino sperando di tornare a una vita che, comunque, non sarà più la stessa. Pensiamo ad esempio alla dimensione ecclesiale. Le limitazioni sono molte, ma siamo certi come preti, catechisti, oratori, comunità cristiane che non ci siano altri spazi e la fantasia per fare qualcosa di più di quanto facciamo? E se le limitazioni e questa situazione andassero avanti ancora per mesi o per anni? Presumo che la capienza nelle chiese e negli ambienti sarà certamente una delle ultime cose a cadere... e intanto? Molti si sono attrezzati, molti hanno fatto anche grazie alle nuove tecnologie. L’accelerazione digitale ci sta sostenendo nelle relazioni pur con evidenti limiti. Solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile. In particolare nella vita delle nostre parrocchie, fatta salva l’eucarestia che fortunatamente viviamo in presenza, siamo certi che altro, soprattutto per la formazione non si possa fare? O anche qui viviamo una “vita sospesa”? Trovo ad esempio molto triste rinunciare a incontrarsi con un gruppo di catechisti, con il Consiglio pastorale piuttosto che tra preti per affrontare i temi della vita della comunità, rimandando a non si sa quando, solo perché non ci si può vedere in presenza, ma solo online. Mi chiedo cosa avrebbero fatto i preti, i catechisti e gli educatori che negli anni ’40 hanno vissuto la guerra, i bombardamenti, la fame se avessero avuto i mezzi che abbiamo noi... Quell’emergenza durò anni e quella generazione non si chiuse in casa in attesa di tempi migliori. E se il Covid durasse cinque anni? Affrontare con coraggio le sfide del proprio tempo senza attardarsi nei “se”, nei “ma” o nei “forse” deve appartenerci di più anche come cristiani. Continuiamo a credere che Dio guida la storia del suo popolo e affida a ciascuno una missione. Chiediamo coraggio e fiducia per fare il bene possibile senza lasciarci schiacciare ne dalla paura, ma nemmeno dall’accidia.