La sfida non è repressiva ma educativa
Si tende sempre a ragionare in termini di allarmante preoccupazione. Quando si riflette sulle tematiche legate ai social network e all’uso che, in modo particolare, ne fanno le giovani generazioni, si parte sempre con le sirene accese. Da qui nascono interventi a mostrare il male, il pericolo, la prevenzione al cyberbullismo e via discorrendo
Si tende sempre a ragionare in termini di allarmante preoccupazione. Quando si riflette sulle tematiche legate ai social network e all’uso che, in modo particolare, ne fanno le giovani generazioni, si parte sempre con le sirene accese. Da qui nascono interventi a mostrare il male, il pericolo, la prevenzione al cyberbullismo e via discorrendo. Che si discuta ancora di Facebook, che si citino gli # (per chi non lo sa si legge hashtag e non cancelletto), che si rincorra un tweet, si condivida uno scatto su Instagram, ci si scambi un messaggio whatsapp, si costruisca una storia o si carichi un video… sembra quasi sempre che gli approcci siano sbagliati e la conseguente azione sia quella di vietare il più possibile, incutere paura e informare sulle conseguenze penali di tutto ciò. Purtroppo, o per fortuna, la questione non è solo questo. La questione è oltre il tentativo di recintare e/o impedire.
È evidente, sempre di più, che è in atto un cambiamento antropologico. È evidente, sempre più, che il mondo adulto fatichi a capire e stare al passo. È evidente, sempre più, che il fascino dei nuovi media, la portabilità e la facilità della fruibilità coinvolgano anche chi ha qualche ruga in più, attirandolo vorticosamente in questa nuova realtà o relegandola a una indifferente superficialità. È evidente sempre più la necessità della responsabilità, in primis del mondo adulto. La questione si gioca su altri piani: quelli educativi. È la prima volta nella storia dell’uomo che i più giovani sono più competenti, da un punto di vista tecnico, rispetto a chi è nato prima. Una volta si andava a bottega per imparare un mestiere. L’adulto, il più esperto, era il riferimento. La cosa meravigliosa è che nel momento in cui un ragazzo imparava la tecnica, questo acquisiva anche i valori di una vita e il bagaglio esperienziale del maestro. Si diventava bravi falegnami e anche un po’ uomini…
La competenza tecnica diveniva il modo con cui offrire la competenza umana. La questione è qui. La sfida non è repressiva o proibitiva ma educativa. Non basta impedire, spiegare conseguenze più o meno penali: serve essere uomini che educano al divenire adulti, anche attraverso i social. Rinunciare a questo significa rinunciare alla crescita degli uomini di domani. Il male non sono né i social né i giovani; servono piuttosto adulti competenti (per lo meno un minimo) di social, credibili tecnicamente del mondo in cui siamo immersi, per ristabilire il meccanismo che permetta agli adulti di tornare ad essere credibili e di educare all’essere uomini. Si cresce così. Non negando l’evidenza dei nuovi media, né essendo da essi fagocitati. La sfida è quella più difficile e più lunga: si chiama educazione.