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di ADRIANO BIANCHI 11 gen 2018 14:40

La sfida di una sinodalità concreta

A livello di Chiesa locale che posto ha la diocesanità rispetto anche a “beni particolari, settoriali, zonali o parrocchiali” nelle nostre adunanze? Serve lungimiranza e disponibilità a ascoltare, a conoscere e certo poi anche a farsi voce di quello che il territorio vive per esprimere giudizi non affrettati

Corre veloce l’agenda del vescovo Tremolada. Parrocchie, persone, eventi, istituzioni... La prossima settimana si riunirà il primo Consiglio presbiterale e poco dopo quello pastorale diocesano. Non appuntamenti tra i tanti, ma momenti in cui dare concretezza alla sfida della sinodalità. Il termine sinodalità non è certo una parola di uso comune, ma è tornato più volte nei primi discorsi del Vescovo. Una sfida perché esprime il desiderio di dare corpo a un cammino da compiere insieme. Nello specifico per “sinodalità”, al di là dell’accezione un poco ecclesialese, si intende un modo di essere Chiesa, di esprimersi, di incontrarsi, in cui si vive gli uni per gli altri, si cerca il bene altrui come il proprio, si fa a gara nello stimarsi a vicenda, per farne stile di vita da offrire come speranza al cammino degli uomini. La radice non è altro che il battesimo: ogni credente in Gesù, e ogni uomo potenzialmente, di diritto fa parte di questo popolo e si trova in cammino con tutti gli altri. Non c’è qualcuno che vi si trovi inserito a maggior titolo di un altro, neppure la gerarchia. Il fatto che la parola sia abbinata per lo più ad adunanze di membri della gerarchia ecclesiale (Sinodo dei vescovi) può ingenerare l’idea che i battezzati in genere siano chiamati ad altre cose. E invece ogni assemblea liturgica è un sinodo, così come lo sono ogni riunione di consiglio pastorale, ogni preghiera comunitaria, ogni incontro di catechismo, ogni momento di confronto e di dialogo. “Il primo livello di esercizio della sinodalità – dice Papa Francesco – si realizza nelle Chiese particolari. Dopo aver richiamato la nobile istituzione del Sinodo diocesano, nel quale Presbiteri e Laici sono chiamati a collaborare con il Vescovo per il bene di tutta la comunità ecclesiale, il Codice di diritto canonico dedica ampio spazio a quelli che si è soliti chiamare gli “organismi di comunione” della Chiesa particolare: il Consiglio presbiterale, il Collegio dei Consultori, il Capitolo dei Canonici e il Consiglio pastorale. 

Ecco allora da dove ripartire anche per una Chiesa che muove i primi passi di un nuovo episcopato e magari di un nuovo parrocchiato: esattamente da quegli ambiti e luoghi che ci permettono di camminare insieme, di discernere e aiutare chi ha il ministero della sintesi a prendere le giuste decisioni per il bene della comunità. Ma come uscire dalla stanchezza e dall’inefficacia che spesso abita questi incontri? Anzitutto dando rilievo a ciò che si discute e si decide. Consigli che assomigliano più a elenchi degli avvisi o momenti più o meno di formazione perché non siamo più capaci di fare la catechesi degli adulti poco hanno a che fare con il camminare insieme. C’è da dire che il tema dei due primi Consigli diocesani è di tutto rispetto: esprimersi sul progetto della Casa del Misericordiare. Lanciato nell’Anno giubilare giunge ora a un passaggio nodale nei consigli diocesani. Milioni di euro, uno spazio di pregio come l’ex-ala di teologia di via Bollani da ristrutturare, un sogno educativo e caritativo da realizzare, un impatto sulla vita diocesana e sulla città da non trascurare. Insomma... tanta roba. Direi si comincia con il botto!

Ma chi fa parte di questi organismi quali atteggiamenti dovrebbe far suoi? Anzitutto la disponibilità a vivere questo “camminare insieme” secondo lo Spirito. Gli organismi di comunione non sono un parlamento o il consiglio comunale in cui si confrontano le parti e si giunge a decisioni in cui qualcuno vince e altri perdono, ma sono un lento ascolto comune dello Spirito Santo che parla alla sua Chiesa. Parlerà certo attraverso argomentazioni e posizioni a volte opposte, forse anche attraverso un voto necessario, ma per giungere a dire una parola ultima che aiuti chi presiede ad avere la certezza morale e spirituale che questa è la volontà di Dio per quella porzione di Chiesa che gli è affidata. Anche per questo, in secondo luogo, chi abita queste sedi lo deve fare nella consapevolezza della complessità e del bene più grande. Mi spiego. Non si può vivere la dinamica di un consiglio diocesano pensando che tanto abito a 30 km da Brescia o che tanto tra 5 anni andrò in pensione e questo tema non mi riguarderà più. C’è sempre una visione d’insieme nello spazio e nel tempo che deve sempre ispirare ogni discussione. A livello di Chiesa locale che posto ha la diocesanità rispetto anche a “beni particolari, settoriali, zonali o parrocchiali” nelle nostre adunanze. Serve lungimiranza e disponibilità a ascoltare, a conoscere e certo poi anche a farsi voce di quello che il territorio vive per esprimere giudizi non affrettati. “Soltanto – dice ancora il Papa – nella misura in cui questi organismi rimangono connessi col “basso” e partono dalla gente, dai problemi di ogni giorno, può incominciare a prendere forma una Chiesa sinodale”, ma dentro una visione d’insieme. Infine coloro che partecipano hanno l’onore e l’onere del “consigliare”. Che si tratti del Vescovo, del parroco o del curato alla base sta la coscienza morale di agire per il bene della Chiesa e i luoghi dove farlo sono questi. Il resto, come direbbe Francesco, è chiacchiericcio.

Nei Consigli ecclesiali non servono gli “yes men” o i “contrari a ogni costo”. La saggezza, il coraggio e l’umiltà sono, a mio parere, le virtù prime dei membri degli organismi di comunione ecclesiale... poi viene l’obbedienza alle decisioni prese perché davvero il camminare insieme, cioè la sinodalità sia concreta e reale. In questa luce è bene vedere anche i primi incontri dei Consigli diocesani con il nuovo Vescovo. Non come incontri di routine o di maniera, ma nella certezza che lo Spirito Santo ci riunisce in un corpo solo e ci sfida davvero a camminare insieme.


ADRIANO BIANCHI 11 gen 2018 14:40