La posta in gioco della maternità surrogata
Il nome è il riflesso del nostro essere persone: dice chi siamo ed è il segno del fatto che non siamo solo esseri umani, ma degli io. E in effetti le nozioni di uomo e di io non possono mai essere separate, se non a prezzo di gravi problemi esistenziali. Qualcosa di questo tipo accade in ogni forma di maternità surrogata. Lo si vede già nel primo caso che solitamente viene ricordato: quello di Baby M, una vicenda accaduta negli ’80 in cui una donna firma un contratto di surrogacy con una coppia di committenti, riceve un compenso, ma al momento del parto decide di tenere con sé la figlia, rendendosi protagonista di una drammatica fuga, segnata da inseguimenti da parte della polizia, che si conclude con un complesso iter giudiziario incentrato proprio sul tema del nome della bambina.
Qual è il suo nome, infatti? Quello che le dà la madre, quello immaginato dai committenti o quello che le dà il giudice nascondendolo in una sigla (M.) con un intento di delicatezza e protezione? A rendere ancora più complesso il tema, però, è il fatto che questa vicenda non sia un vero e proprio caso di surrogacy come la conosciamo oggi, perché in essa manca la fecondazione in vitro e la madre della bambina è sia la sua madre genetica, sia la madre gestante e partoriente. Il problema della maternità surrogata non è, infatti, soltanto il nascere per contratto ma la scomposizione del materno resa possibile dalla tecnica della Fivet che divide in tre figure femminili ciò che per secoli è avvenuto nel corpo di un’unica madre: la madre genetica (colei che dona o vende l’ovocita), la madre che fa la gestazione e il parto e la madre sociale che si prenderà cura del bambino dopo il parto. La domanda che così si pone, di fronte alla comparsa di questi tre diversi nomi del materno, è chi sia in questo tracciato tecnologico di scomposizione la vera madre. Una domanda difficile per lo studioso ma che diventa ancora più complessa, personale e drammatica per il figlio: “chi è mia madre?”. E dunque: “chi sono io?”.
Si comprende, allora, la novità di documenti come la Carta per l’Abolizione universale della maternità surrogata, promossa dalla sinistra femminista francese nel 2016, la Dichiarazione di Casablanca del 2023, e ora la Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede Dignitas infinita. Infatti, se la richiesta non è quella di proibire la maternità surrogata ma di abolirla – in modo che nessuno possa rivendicarla come un diritto –, il fil rouge di questi riferimenti, comunque tra loro molto diversi, sta nell’idea che il fenomeno della maternità surrogata possa essere valutato solo con una logica universale. L’importanza di uno sguardo di questo tipo emerge già nella considerazione della sola versione commerciale della surrogacy nella misura in cui, rappresentando un mercato a tutti gli effetti trans-nazionale, non può essere trattata, dunque, sul piano giuridico con un approccio localistico. Più significativamente a motivare la necessità di un approccio universale, però, è l’impossibilità di distinguere nettamente sul piano valutativo tra surrogacy commerciale e altruistica. Certo, si può sempre distinguere tra mercato e dono, ma questa distinzione perde la sua importanza non appena ci si rende conto del fatto che in ogni “maternità per conto terzi” a essere venduto o donato non è mai davvero solo il servizio gestazionale. Infatti, non esiste nessun servizio gestazionale senza la presenza effettiva di un bambino ed è questo il motivo per cui a essere venduto o donato è sempre un figlio, mettendo così in crisi in modo radicale la distinzione tra persone e cose. Al di là del nome è questa la vera posta in gioco della maternità surrogata.