La pillola dei 5 giorni dopo
Dov’è il femminismo quando serve? Il femminismo che davvero difende la peculiarità dell’essere donna e che realmente rivendica la parità? A leggere i dati sul consumo della pillola dei cinque giorni dopo viene il fondato dubbio che anni di lotte femministe per pari dignità, pari retribuzione, pari vita nel mondo, finiscano per aver ceduto tutte le armi quando si parla di educazione all’affettività
Dov’è il femminismo quando serve? Il femminismo che davvero difende la peculiarità dell’essere donna e che realmente rivendica la parità? A leggere i dati sul consumo della pillola dei cinque giorni dopo viene il fondato dubbio che anni di lotte femministe per pari dignità, pari retribuzione, pari vita nel mondo, finiscano per aver ceduto tutte le armi quando si parla di educazione all’affettività. I dati parlano da soli: 200.507 pillole dei cinque giorni dopo vendute in dieci mesi dicono senza ombra di dubbio che non si può parlare di “contraccezione d’emergenza”, ma di uno stato di criticità perdurante. Che, oltretutto, è declinato a responsabilità unica: quella femminile. Persino nell’articolo del “Corriere della Sera” che dà la notizia, il numero mirabolante di confezioni vendute è stato riscritto in lettere, perché pare inverosimile: duecentomilacinquecentosette sono le pillole dei cinque giorni dopo vendute in farmacia da gennaio a ottobre 2016. Spacchettando in giorni sono 660 al giorno, una ogni due minuti. Se la funzione dichiarata di questi “contraccettivi d’emergenza” è quella di intervenire a seguito di un fallimento contraccettivo o di un rapporto non protetto, siamo di fronte a una Caporetto globale. A partire dalla leggerezza con cui si gioca con la relazionalità sessuale. Inoltre, stante che non si è avuta notizia di class action di clienti imbufaliti contro le aziende produttrici di profilattici per denunciare centinaia di rotture quotidiane, un ricorso così massiccio alla pillola dei cinque giorni dopo rende evidente che qualcosa non quadra.
E anche che la sventatezza condivisa finisce, ancora una volta, sulla pelle delle donne. Parlare di libertà di decisione della donna vista da questa prospettiva è sufficientemente paradossale. È abbastanza inutile inneggiare all’autogestione del corpo se poi quello stesso corpo (femminile) è l’unico sottoposto ai martellamenti ormonali da pillola pre e pillola post, l’unico costretto alla ferita dell’interruzione volontaria di gravidanza, l’unico assoggettato all’invasività delle tecniche di fecondazione artificiale, l’unico sottomesso alla dittatura dell’utero in affitto. E poi, tutti pazzi per il bio, tutti vegani, tutti kilometro zero, tutti antivaccinisti, però, quando si tratta di contrasto alla gravidanza (vogliamo chiamarlo così?), la chimica torna prepotentemente alla ribalta senza se e senza obiezioni di sorta. Quante ragazze, quante donne adulte, sanno che ogni volta che si affidano alla contraccezione di emergenza si bombardano di sostanze non proprio salutari? Poche, se le pillole vendute nel 2014 erano 13.401 e, si legge, tra il 2014 e il 2015 la crescita è del 664,2%, tra il 2015 e il 2016 del 95,8%. Nel giro di due anni, sempre nello stesso periodo, l’aumento è di 15 volte. A voler essere pignoli e parlando di soldi, non si può non notare che a quasi 27 euro a botta, non rimborsati dal Ssn, fanno 5 milioni e 400mila euro di spesa in pillole dei cinque giorni dopo.
Un trafiletto di pochi giorni fa, e sottolineiamo trafiletto, diceva che la sperimentazione del “pillolo” per gli uomini non aveva dato buoni risultati perché molti uomini abbandonavano i trials non sopportando gli effetti indesiderati degli ormoni: sbalzi d’umore, acne, dolori, eccetera. Gli stessi uomini che, in momenti d’intimità, sono anni che cercano rassicurazioni sul fatto che la partner, invece, fruisca di tutti quegli effetti collaterali. L’arrivo non programmato di un figlio è da sempre considerato responsabilità delle donne, mai degli uomini che, è successo solo pochi giorni fa, arrivano a ucciderle (a ucciderli, perché sono in due) pur di non dover dire: sì, è anche figlio mio. Davvero raggiungiamo la parità se decliniamo al femminile tutti i sostantivi maschili? La nostra dignità di donne è più valorizzata dal far finire tutte le desinenze in –a oppure dall’insegnare agli uomini che la procreazione si chiama “responsabile” perché chiama a una responsabilità condivisa?