La non risposta di eutanasia e suicidio assistito
Dal punto di vista etico, ogni volta in cui è in gioco la medicina, lo scopo deve essere unicamente quello di prendersi cura della persone. Per farlo, però, è essenziale anche prendersi cura delle idee: infatti non di rado gli impedimenti, gli ostacoli, non sono solo fisici ma anche culturali. Ora, l’obiezione che di solito si fa quando si parla di questo tema è che non si può non tenere conto del peso del dolore e della sofferenza che vivono alcuni malati proprio per la loro condizione. E questo di fronte a una tecnologia che invece di apparire miracolosa e affascinante, presenta qui il suo volto più inquietante, evocato attraverso l’immagine del cosiddetto spettro delle macchine. Al di là dello sguardo schizofrenico della nostra società verso la tecnologia, resta però centrale che non è effettivamente possibile prendersi cura delle persone senza mettere a tema la distinzione tra dolore e sofferenza. Senza di essa, poi, non si può pensare nemmeno il grande messaggio a favore delle cure palliative e degli hospice, la cui implementazione rappresenta un diritto fondamentale, se solo si pensa alla situazione vergognosa delle poche unità di cure palliative concretamente disponibili per abitante: un posto letto ogni 100mila abitanti (dati del 2022). Come intendere i due fenomeni, allora? Per tentare una risposta si può dire che il dolore rimanda alla dimensione fisica del nostro essere, e per questo ha a che fare con il qui ed ora, mentre la sofferenza ha una valenza esistenziale che emerge come minaccia di distruzione della propria vicenda biografica, a dire che si soffre ogni volta che si percepisce come la nostra storia personale vada in crisi. È questo il motivo per cui la sofferenza abbraccia tutte e tre le forme della temporalità – passato, presente e futuro, nella forma del ricordo, del rimpianto, dell’attesa e del timore – mentre il dolore resta un fenomeno temporalmente puntuale. Addentrarsi nella distinzione tra dolore e sofferenza, in ogni caso, significa accorgersi del fatto che l’esperienza umana è ambivalente. Una persona, infatti, può essere profondamente felice e provare al tempo stesso un dolore fisico o al contrario può sprofondare nella disperazione e provare ogni sorta di piacere sensoriale. Così possiamo avere un sorriso allegro in mezzo a una grave sofferenza, quando un buon umore non è in grado, però, di togliere una “profonda sofferenza” che resta depositata nel profondo dell’io.
Il dolore si dà come localizzato in una certa parte del mio corpo – è il piede, la mano, il ginocchio che mi fa male – ed è per questo ha “solo” una presa indiretta sul mio essere, mentre la sofferenza ce l’ha sull’intero della mia esistenza. Sul dolore abbiamo, poi, delle chance di controllo che non possediamo, invece, nel caso della sofferenza. Infatti, mentre in linea di principio è possibile narcotizzare ogni dolore – così come il piacere sensibile può essere stimolato con l’uso di adeguate sostanze – i vissuti più profondi del nostro essere, cui certamente la sofferenza appartiene, sfuggono al controllo della volontà. Anzi, tanto più sono profondi tanto più sfuggono: beatitudine e disperazione, infatti, proprio in virtù della loro cifra eminentemente relazionale, hanno – come diceva un filosofo come Max Scheler – un carattere di dono, nel senso che indicano qualcosa che accade grazie ad altri, cioè indipendentemente da noi.
Ora, se concepiamo correttamente la sofferenza come minaccia di distruzione della propria vicenda biografica, non è difficile vedere come la risposta a essa non possa essere né farmacologica né tecnologica. Di qui, però, il motivo per cui non si può vedere una soluzione neppure nella morte, dato che essa resta in sé la conferma della distruzione della vicenda biografica, il suo realizzarsi. Ecco perché se la risposta al dolore è nella palliazione, appare evidente come né l’eutanasia né il suicidio assistito possano essere intesi come una risposta alla sofferenza. Di qui il bisogno di una medicina che sia capace di prendersi cura delle persone riconoscendo in primo luogo la ricchezza e la complessità del nostro stesso essere.