La Mostra di Venezia non smetta di guardare al grande pubblico
Il rischio che la Mostra di arte cinematografica di Venezia si trasformi sempre più in una specie di cineclub per cinefili e addetti ai lavori che disquisiscono di prodotti culturali d’indubbio valore, ma assolutamente non intercettabili dal sempre meno grande pubblico che va in sala è evidente e dovrebbe far pensare.
La provocazione è partita nei giorni scorsi dal giornalista e critico cinematografico Paolo Mereghetti. Un parere autorevole a cui ha replicato anche Alberto Barbera, direttore della kermesse. Alla sollecitazione di Mereghetti si potrebbe obiettare che la ragione della Mostra del cinema di Venezia non è quella di promuovere il mercato cinematografico. A questo pensano altre manifestazioni come Roma, Toronto e le varie giornate professionali, ma chiedersi dove sta l’equilibrio tra la ricerca estetica dell’arte cinematografica e la fruibilità reale, tra la sperimentazione e la capacità di interpretare in modo artistico le emozioni, le attese e i desideri di chi nel cinema vuole riconoscersi e cogliervi un originale sguardo sul mondo non è sterile.
Certamente esiste un pubblico di appassionati e cinefili. Penso ad esempio ai cineforum e al grande lavoro di approfondimento che anche in ambito ecclesiale fanno i tanti circoli di cultura cinematografica italiani, spesso nelle sale della comunità, e che sono assolutamente interessati a prodotti di alto valore culturale, ma resta la domanda se da Venezia, almeno per una parte, non ci potremmo aspettare uno sforzo in più per proporre il cinema d’autore in sala, magari in programmazione ordinaria.
Il Palmares di Venezia72 ha in ogni caso premiato le storie. E questa, al di là dei temi e dello stile narrativo, è già di per sé una buona notizia. Per il resto permangono alcuni limiti di sempre tra ciò che passa in laguna e il pubblico che va al cinema.
Il primo è che da sempre la stragrande maggioranza di ciò che si vede a Venezia non ha una distribuzione e pertanto non può arrivare al pubblico. Se più o meno il 70% dei film resta invenduto, se i primi a non voler rischiare su questi prodotti culturali sono coloro che il cinema lo distribuiscono cosa vuol dire?
Il secondo limite è nel concetto di cultura. L’idea che il fare cultura, anche in cinematografia, sia necessariamente opposto a una certa popolarità è miope. Ha senso fare dei film solo con il fine di assecondare i giudizi dei critici, degli esperti, dei colleghi (magari in una sorta d’incensazione reciproca) senza incontrare mai la sensibilità della gente e lo spirito del tempo? Come raccogliere la sfida di raccordare la qualità senza dimenticare una comprensibilità che restituisca al suo valore artistico il compito di ispirare ed elevare lo spirito dei popoli?
Un terzo limite è in qualche modo estetico. L’idea che il cinema che vale sia solo quello che interroga, denuncia, pone temi cruciali o usa linguaggi astrusi è autentica? Che ne facciamo del cinema che intrattiene, fa sorridere e fa sognare? Il box office settimanale non smette di ripeterci che la gente va al cinema spesso per svagarsi, per ridere, per staccare la spina, per passare un momento in compagnia, per vivere un’emozione capace di strappare una lacrima, un sussulto, un’ispirazione. Come offrire una produzione cinematografica di qualità che non si dimentichi anche di queste tonalità? E Venezia potrebbe dare un contributo? Speriamo che la sfida resti aperta.