La missione oltre il Festival
Non sono i numeri il vero successo del primo Festival della missione, ma il respiro di una Chiesa aperta al mondo. La città ha incontrato persone di culture differenti innamorate del Vangelo. Sulla scorta del Festival la vera sfida oggi per tutti (singoli, gruppi, parrocchie...) è assumere uno stile missionario
Quattro giorni di testimonianze e di incontri, di mostre e di momenti di preghiera, di spettacoli e di animazione. Da Brescia sono passate e hanno lasciato il segno più di un migliaio di persone. La prima edizione del Festival, promosso da Missio, dalla Conferenza degli Istituti Missionari in Italia e dalla Diocesi, é stata un successo. Non è scontato avere, oggi, uno spazio in cui confrontarsi sui bambini soldato piuttosto che sul narcotraffico, sulla schiavitù della tratta piuttosto che sul futuro stesso della missione ad gentes. Da suor Rosemary a padre Alejandro Solalinde, da Blessing Okoedion al card. Tagle e a padre Zanotelli. Per non parlare delle 22 mostre e della presentazione dei libri in un gazebo trasparente (una scelta indovinata) sul Corso principale.
Il merito del Festival non è quello di aver coinvolto molto pubblico, ma di aver offerto uno sguardo universale sul mondo: colori e lingue differenti per testimoniare lo stesso messaggio. Al centro resta l'annuncio del Vangelo in una società sempre più scristianizzata. È bello pensare che in queste giornate in molti, nella cattolica e storicamente missionaria Brescia, si siano chiesti che cosa spinge sacerdoti, religiosi, religiose e laici a dire sì a Cristo anche in situazioni molto complesse. I volti dei missionari erano ben visibili: camminavano nelle strade e nelle piazze con la gioia di chi sa che vale la pena spendere la vita per Lui. È bello che in tanti si siano interrogati sulle storie straordinarie, a latitudini differenti, di amore per l'altro. Anche chi palesava dei dubbi sulla formula (quasi sempre sono manifestazioni effimere che richiedono un grande impegno economico), ha dovuto ricredersi. Certo lo sforzo organizzativo ha richiesto il coinvolgimento di molti e preziosi volontari che portavano in dono un valore aggiunto: condividevano e condividono nella quotidianità lo spirito missionario. Ma non può bastare lo spazio di un Festival (da non confondere con la vetrina di un negozio dove vengono esposti i pezzi migliori...) a ragionare su quello che siamo.
Grazie anche al Festival, però, possiamo e dobbiamo chiederci se siamo davvero coerenti con il messaggio del Vangelo, se siamo pronti a tendere la mano all'altro, se riusciamo ad aprire i nostri orizzonti, se curiamo le relazioni, se mettiamo in discussione il nostro stile di vita con uno spirito più critico, se coltiviamo la virtù della sobrietà e della moderazione, se siamo disposti ad accompagnare chi fatica e chi è ai margini, se siamo disposti ad accogliere chi non conosciamo, se valorizziamo il contributo di tutti, se diciamo no a ogni forma di sfruttamento (dalla prostituzione al gioco d'azzardo che alimenta la criminalità organizzata), se tuteliamo e promuoviamo il lavoro degno. Se siamo disposti ad assumere uno stile missionario che è esigente e non ammette sconti o furbizie. Coerenza e responsabilità. A tutti i livelli: dal singolo al gruppo parrocchiale, dalla parrocchia all'unità pastorale, dalle fondazioni all'ente diocesi. Nella sua prima omelia, che potremmo definire programmatica, Tremolada ha chiesto alle comunità di prendere in mano il progetto per una pastorale missionaria. Il Festival può favorire questo passaggio. Consapevoli che la Chiesa, parafrasando Papa Francesco, se non è missionaria non è Chiesa.