La corsa sotto la curva del cielo
“Ah don, stavolta l’ho combinata grossa” mi disse due giorni dopo la famosa corsa sotto la curva dell’Atalanta. Mentre la squadra si allenava, ci fermammo in panchina a chiacchierare riguardando con calma le scene di quella partita: la grande tensione legata al derby, gli insulti atalantini nei confronti dell’amata mamma, l’esplosione emotiva per il goal di Baggio che sanciva il pareggio. La sua “corsa” è così entrata nella storia dell’uomo di vita e di sport, per significare la sua passione e la ricchezza umana.
Ma c’è un dopo che amo testimoniare. Alla frase: “Ah don, stavolta l’ho combinata grossa”, Mazzone mi aggiunse un discorso da grande educatore, ancor prima che da uomo pentito per l’impeto passionale. “E adesso i ragazzi che cosa penseranno di me? Da sempre sto insegnando che un giocatore prima deve essere un uomo (vero!) e dopo potrà giocare anche a calcio… ma questa volta non ho proprio dato un buon esempio! L’ho fatta grossa!”. Carletto, un uomo capace di confidarmi: “Vedi quel giocatore? Ha due boni piedi … ma non c’ha testa. Non potrà mai essere un grande!”. E dopo pochi mesi quel giocatore finì nei pasticci e venne cacciato…
La paternità del dopo, di chi sa riflettere sulle situazioni e trovarne le giuste risposte, emerse quattro mesi dopo quando, il 23 gennaio 2022, morì tragicamente Vittorio Mero. Furono giorni drammatici per tutti. Mazzone tenne la squadra unita per il grande rispetto verso la morte. “Quando si scende in campo – mi raccontò una volta – è sempre bene farsi il segno della croce. Il gioco è un campo di battaglia e non sai come ne esci”. Anni prima, un suo compagno di squadra era morto in campo durante un contrasto con l’avversario. La morte di Vittorio Mero segnò profondamente Carlo Mazzone e lo scoprimmo dopo altri quattro mesi, nel giugno 2022. La salvezza in Serie A venne agguantata all’ultima giornata con un “goal miracoloso” del gemello Filippini, compagno di camera di Vittorio Mero. La premessa del mister era stata: “Noi non possiamo perdere, noi non possiamo retrocedere. Lo dobbiamo a Vittorio, a sua moglie e suo figlio. Dobbiamo rendere onore alla famiglia del nostro compagno di gioco”. Dopo due settimane, festeggiando nel giardino di Casa Corioni la salvezza ottenuta, Carletto non parlò di sport. Davanti ai giornalisti, ai giocatori e dirigenti, esordì dicendo: “Quest’anno mi è stato affidato un gruppo di giovani. Ne ho perso uno lungo la strada”. Il volto era segnato dalle lacrime, dai singhiozzi per quel principio spesso dimenticato: lo sport è per l’uomo, per la sua vita e per la sua gioia. Ora anche per Mazzone inizia il tempo del dopo. Troverà tanti compagni in paradiso. Ed insegnerà ancora a correre, soprattutto a noi, affinché non ci dimentichiamo… della curva del cielo!