La contesa sul Bigio
Ci risiamo col Bigio, la statua del Dazzi nata con piazza Vittoria e tolta dal piedistallo subito dopo la guerra come un gesto di riscatto dal ventennio, facendo così assurgere quella scultura ad un simbolo diventato da allora non più segno della cultura del tempo, ma oggetto incompatibile con la democrazia. Già nel pronunciarla la motivazione assume una sacralità eccessiva. Sono le generazioni che hanno vissuto la guerra e il primo dopoguerra ad avere legittimamente assunto occasioni simboliche per testimoniare la sconfitta del fascismo e il dovere di vietarne un ritorno anche solo rituale o simbolico.
Ma delle testimonianze culturali del periodo, a cominciare dall’architettura, anche a Brescia, non venne distrutto nulla, com’era ovvio. Perché nel caso, ciò che della monumentalità fascista andava rifatto a Brescia era piazza Vittoria, non il Bigio che della piazza è un marginale arredo. È nell’insieme di piazza Vittoria, che pure la storia ha giudicato come una delle opere meritevoli dell’architetto Piacentini, che si specchia la monumentalità della “romanità fascista”. È piazza Vittoria che ha distrutto uno dei quartieri popolari più ricchi di fascino, quello delle pescherie che stavano intorno alla Loggia. E il “programma imperiale” come lo definisce Arsenio Frugoni nel bel libro pubblicato dalla Morcelliana in suo ricordo, che testimonia piazza Vittoria, sintesi fredda, glaciale, spettrale, in uno spazio certo razionale, ma vuoto, “metafisico”, cioè fisicamente artefatto, esattamente l’opposto di quella umanità brulicante di quartiere che la piazza ha distrutto.
E allora il Bigio che c’entra? Nulla in sé. Il monumento non è né bello né brutto, a guardarlo nelle foto d’epoca riempie il vuoto della piazza, anzi è il solo senso della piazza. Ma è diventato un simbolo e riportarlo lì è possibile solo se si riesce a toglierli di dosso il cario pesante dell’immaginario simbolico. Qualche anno fa, a Brescia, abbiamo tolto dagli scantinati dove giaceva nascosto come il Bigio, il faccione di Mussolini, opera dello scultore Wildt, esposto nella mostra a lui dedicata in palazzo Martinengo. Nessuno se ne è accorto. Non ci sono state proteste né richieste di censura. L’arte è la testimonianza di quella stagione. Va guardata per ciò che è stata, per ciò che ci ha impedito di essere. Sul Bigio va riproposto un dibattito meno carico di segni. Serve per ogni decisione un consenso largo. E, riposta quella statua in piazza Vittoria o collocata nei musei, va esposta con una intelligente spiegazione, raccontandone la storia, anche quella per ci è stato chiesto di credere nei simboli. Che forse sono serviti a poco ma ci hanno aiutato a ricordare.