La Chiesa esclude?
Il tema “Green Pass” tocca la vita delle nostre parrocchie
Il tema “Green Pass”, in questi giorni, sta toccando la vita delle nostre parrocchie e dei nostri oratori. In comunione con i Vescovi lombardi, il Vescovo Pierantonio ed il Vicario Generale hanno indicato che è necessario trovarsi nelle condizioni di aver ricevuto la vaccinazione, di essere guariti da non oltre sei mesi oppure di aver solto il tampone nelle 48 ore precedenti il servizio quale “segno di singolare rispetto della vita altrui”. Questo orientamento incrocia le storie personali di alcuni catechisti, volontari, operatori pastorali non vaccinati: cosa fare? La chiesa sta escludendo qualcuno da un servizio appassionato che svolge da anni?
Vorrei provare a trovare un filo che possa aiutarci a guardare a questo tema senza esasperarlo anche per provare ad evitare divisioni e fraintendimenti. Certamente la decisione di vaccinarsi attiene alle scelte individuali. Molti sono gli argomenti che portano alla formazione della stessa: l’ascolto di persone conosciute, la fiducia nei confronti del proprio medico e delle istituzioni, la ricerca di informazioni più o meno autorevoli, le proprie legittime paure, la valutazione delle proprie condizioni di salute. La modalità di comunicazione che i social ci impongono non aiuta alla formazione di buone coscienze: esaspera toni e timori, alza il volume dello scontro, insinua sospetti. A chi credere? Non è inutile ricordare che la comunità scientifica offre, seppure con i limiti di una ricerca che è umana, criteri e metodi di valutazione e di verifica delle proprie conoscenze che la rendono affidabile.
Accanto alla scelta di accettare o meno di ricevere il vaccino (gratuitamente, è bene ricordarlo, perché a volte si può anche pensare bene di uno Stato che ha messo in atto uno sforzo enorme per rendere possibile in meno di un anno una vaccinazione “universale”), si accosta la responsabilità di chi deve scegliere sulla scorta delle implicazioni sociali o nella comunità di queste scelte. E in questo caso, invece, la valutazione sul come comportarsi attiene a chi esercita un ruolo di guida: le scelte individuali, per quanto legittime, di chi svolge un ruolo educativo possono costituire, in qualche modo, un rischio ulteriore per chi gli è affidato o per i suoi famigliari più fragili? Possono queste scelte diventare motivo di sfiducia – da parte ad esempio dei genitori dei bambini iscritti al catechismo - nei confronti di una comunità cristiana che educa? Appare chiaro che ad entrambe queste domande una guida deve poter rispondere cercando di rendere più sicura possibile la frequenza ai piccoli e alle loro famiglie e, allo stesso tempo, evitando di far vivere la temporanea sospensione del servizio, per chi non fosse nelle condizioni “da green pass”, come un’esclusione o una punizione: tutto il buono fatto per gli altri, tutto il bene che ancora si è pronti a spendere non sono certo perduti, né per chi li ha ricevuti, né per le loro conseguenze positive nelle relazioni, nell’esperienze di vita, nelle dinamiche comunitarie.
Gli inviti di Papa Francesco (che da tempo si è espresso: “Vaccinarsi, con vaccini autorizzati dalle autorità competenti, è un atto di amore”), del presidente Mattarella e del nostro Vescovo, non esattamente personalità sospettabili di dubbie finalità, possono diventare - per chi è disponibile - motivo di ulteriore approfondimento delle proprie scelte. Per tutti rimane comunque la grande sfida di far sì che il tempo della pandemia non si riveli solo tempo perduto: ma tempo speso – personalmente e insieme – per costruire comunità nuove, serene e propositive nel servizio, attente agli ultimi e ai fragili, come sempre.