L’uomo fragile scende in campo e gioca di squadra
Come sempre, le Olimpiadi ci danno l’occasione di incontrare paesi lontani, grazie agli atleti provenienti da diverse parti del mondo. Questo vale anche per le Paralimpiadi, che abbiamo seguito nei giorni scorsi a Parigi. Così guardando la finale del volley sitting, vincitrice è stata la nazionale dell’Iran, paese dove molti sono i mutilati a causa della guerra, delle mine, delle bombe...
Non è facile seguire le immagini delle paralimpiadi, che al primo momento suscitano un certo sconforto… ma chi ha la pazienza di continuare a guardare scopre la bellezza di quello sport, la bravura, la tecnica, l’abilità degli atleti in campo… Come è stato scritto dai commentatori e anche come è stato detto dagli atleti nell’interviste, essi dimostrano di essere come gli altri nel mondo dello sport.
C’è un altro punto credo che la loro forte testimonianza ci mostra: non solo loro sono come noi nello sport, ma anche noi siamo come loro scoprendo e accettando la nostra fragilità, mettendo in campo la nostra fragilità, e facendolo insieme agli altri.
Nel tempo del delirio di onnipotenza tecnicista, e nel tempo in cui si rischia - come dice sempre Papa Francesco - la cultura dello scarto, nel tempo dell’apparire sempre perfetti e belli (e al limite ritoccati), alcuni autori ci hanno riportato con i piedi per terra e ci hanno ricordato che l’uomo è fragile, è segnato dalla vulnerabilità, dalla caducità. È questa che ci muove alla cura e all’amore vicendevole.
Secondo il professor Vittorino Andreoli «la fragilità rifà l’uomo»; “La fragilità che è in noi” intitola Eugenio Borgia uno dei suoi libri; “La fragilità degli esseri umani”, scriveva già Emmanuel Mounier, il fondatore del personalismo nel secolo scorso, secondo il quale il dolore continua ad imperversare per il semplice motivo che l’essere umano è in se stesso fragile, e lo è tanto nella sua costituzione fisica quanto nella sua costituzione psichica, dove s’accumula l’angoscia.
Nel suo “L'uomo di vetro”, Andreoli spiega sul piano psicologico che “la fragilità è un valore umano. Non sono affatto le dimostrazioni di forza a farci crescere, ma le nostre mille fragilità: tracce sincere della nostra umanità, che di volta in volta ci aiutano nell’affrontare le difficoltà, nel rispondere alle esigenze degli altri con partecipazione. Il fragile è l’uomo per eccellenza, perché considera gli altri, suoi pari e non, potenziali vittime, perché laddove la forza impone, respinge e reprime, la fragilità accoglie, incoraggia e comprende…”.
E così scrive la professoressa Elena Pulcini, che ha fatto della fragilità uno dei caposaldi della sua filosofia sociale: “... la nostra ontologica vulnerabilità, che è ciò che definisce l’umano. E riconoscere la vulnerabilità è oggi più che mai salutare per un genere umano caratterizzato dalla perdita del limite e da una hybris narcisistica accecante. La vulnerabilità è insomma una risorsa, anche in quanto ci spinge ad interrompere la spirale di illimitatezza della quale siamo diventati inconsapevolmente prigionieri.” Secondo la filosofa, il riconoscimento della fragilità muove la persona alla cura: “La risposta sta, vorrei proporre, nella duplice dimensione della relazione di cura: questa implica infatti non solo l’attenzione del soggetto all’altro e la presa in carico dei suoi bisogni e della sua fragilità, ma anche il riconoscimento della fragilità costitutiva del soggetto stesso; del suo essere connotato da una condizione di mancanza e di dipendenza che lo espone a sua volta, costituivamente, al bisogno di cura. Il tema della fragilità e della vulnerabilità del soggetto è da qualche tempo al centro della riflessione contemporanea, da Paul Ricoeur a Judith Butler; ... Ciò che le accomuna è l’idea che la parabola dell’individualismo moderno e del soggetto sovrano ha finito per oscurare, o meglio, per rimuovere quella condizione ontologica di vulnerabilità che, una volta riconosciuta, può spingere il soggetto a riconoscere la propria insufficienza e la propria dipendenza dall’altro, il suo essere ineludibilmente vincolato ad altri, ad altre vite e ad altri destini. E’ dunque necessario, per usare il lessico di Lévinas, un ‘risveglio’ del soggetto; e questo - mi preme aggiungere - non può che avvenire attraverso la reintegrazione della dimensione rimossa come ciò che prelude alla consapevolezza etica della propria fragilità “. Per questo gli atleti delle Paralimpiadi ci danno una vera immagine di noi stessi, donne e uomini fragili, che scelgono di scendere in campo e mettersi in gioco per come sono, e lo fanno insieme agli altri e per gli altri. Perché solo insieme agli altri, nella relazione con gli altri, nel gioco di squadra possiamo accettare e vivere la nostra vera condizione umana.
@Foto Ansa/Sir