L’Olimpiade è una scuola di vita
Per molti atleti è il sogno di una vita. Poter partecipare a un’Olimpiade equivale al coronamento di un’intera carriera sportiva. Nelle gare olimpiche l’atleta può confrontarsi con persone che come lui hanno la stessa passione, la stessa determinazione e volontà, orientata al successo sportivo.
E vincere una medaglia d’oro tra i 42 sport disputati significa essere il primo tra quasi 8 miliardi di persone. Con un dubbio: tutto questo è soltanto un gioco? No! Anzitutto l’Olimpiade, per chi sa riconoscere i valori, rappresenta la sintesi perfetta tra umanesimo, religiosità e vita pubblica. Le antiche Olimpiadi nacquero in Grecia, la culla della cultura umanistica. La palestra era collocata accanto al Teatro e all’Agorà. Con la caduta del mondo classico terminarono anche le Olimpiadi. Quando nel 1886, dopo 1503 anni, De Coubertin propose le Olimpiadi moderne intendeva riaffermare il primato della persona sulle catene di montaggio. È il corpo dell’atleta a stupire per le potenzialità e le capacità, non la macchina. Ed anche oggi l’uomo torna a essere al centro di un nuovo umanesimo per sconfiggere il linguaggio virtuale promosso nel terzo millennio. Agli atleti che gareggiano sotto il simbolo dei cinque cerchi, non è chiesto soltanto di giocare, di competere e di vincere, ma anche di dimostrare quanto lo sport sia ancora veicolo di valori, di amicizie e di inclusione. Sono tante le storie di vita raccontate da atleti che pur non vincendo medaglie hanno testimoniato episodi di fatica, di sogni infranti, di limiti superati, di gesti talmente umani da apparire eroici. È la storia di Abebe Bikila, il più grande corridore di tutti i tempi, che nel 1960 vinse a piedi scalzi la maratona di Roma. Giunto al traguardo quattro minuti prima dei suoi avversari si mise a fare ginnastica commentando: “Avrei potuto correre senza problemi altri 10 km”. È la storia di Derek Redmond che alle Olimpiadi di Seul del 1988, durante la gara si ruppe il tendine di Achille per lo sforzo estremo. Rifiutò la barella e corse verso il traguardo saltellando su una gamba. I 65mila del pubblico si alzarono in piedi per applaudire quello sforzo. Un uomo dal pubblico saltò le gradinate e si mise al suo fianco fino ad abbracciarlo all’arrivo: era suo padre! È la storia di John Stephen Akhwari, un atleta della Tanzania, che nel 1968 entrò nello stadio con la gamba fasciata e sporca di sangue. Al suo arrivo il vincitore della corsa se n’era già andato da più di un’ora e lo stadio era ormai vuoto. E lui dichiarò: “Il mio Paese mi ha mandato qui per finire la corsa. Non potevo tornare a casa deludendo chi ha avuto fiducia in me”.
È la storia di Daley Thompson che nel 1988 perdendo la gara di decathlon, dopo due medaglie d’oro olimpiche, affermò: “È tutto facile quando si vince; è nella sconfitta che un uomo regala se stesso”. Ma anche la storia di Dick Fosbury chi vinse l’oro nel 1968 andando contro corrente e inventando un nuovo stile di salto in alto. Dichiarò: “Era la cosa più naturale per me”. Che lo sport non fosse soltanto un gioco lo capì anche la Chiesa quando, a inizio Novecento, cominciò a cercare modelli di sportivi cristiani da proporre ai giovani. Bartali fu un mito creato da Luigi Gedda: umanità, sport e fede erano un tutt’uno. L’Olimpiade non è solo un gioco. È una scuola di vita e di valori. Leggete tra le righe olimpiche e scoprirete che anche oggi l’uomo è l’artefice della propria gioia di vivere.