L’intelligenza della storia e del futuro
Recentemente Ian Bremmer – noto politologo americano – ha cercato di rispondere a una domanda legittima: “Come sta il mondo?”. Bremmer, che già ci aveva regalato l’idea del mondo tecno-polare, esamina per esempio il vuoto di leadership delle due superpotenze mondiali, Usa e Cina, che non vogliono (o non possono) frenare i rispettivi alleati che creano instabilità, ossia Israele e Russia, con gravissimi rischi da parte di palestinesi e ucraini. La conclusione di Bremmer è drammatica: nessuno dei principali conflitti in corso nel mondo avrà una situazione sostenibile. Niente pace, niente stabilità. Da Gaza a Kiev per un verso, da Tblisi a Taiwan per un altro. Le aree di morte e di instabilità sono tante. Infatti, il Global peace index dell’Institute for economics & peace dichiara che attualmente sono attivi 56 conflitti, il più alto numero a partire dal 1945, dalla fine della Seconda guerra mondiale. Le parole di Papa Francesco sulla “terza guerra mondiale a pezzi” trovano drammatica conferma nei dati. I decessi legati a questi conflitti, ad aprile 2024, erano già 162mila, la maggior parte dei quali in Ucraina: come se una città intera fosse stata inghiottita.
Che fare, dunque? Tanto per cominciare educare alla vita e non alla morte, alla pace e non alla guerra. Le città possono farlo. E lo fanno con credibilità. Recentemente, Denis Kochubei, vicesindaco di Mariupol, è venuto a Brescia. È stata una lezione importante per tutti noi, perché le città sono il luogo di una resistenza possibile: Gaza e Kiev per un verso; Tblisi, Gerusalemme e tante altre per un altro verso ancora. Peraltro, Giorgio La Pira affermava che ogni città è legata a tutte le altre città del mondo per amicizia, per intimo nesso e per intimo scambio: insieme formano come un unico grandioso organismo che conserva e cura i beni umani essenziali di cui tutte le generazioni hanno bisogno, a partire dalla pace. Dunque, le città sono luoghi dove può crescere la volontà di pace. La recente presenza dei “Parents’ circle”, l’associazione che riunisce israeliani e palestinesi legati dal dolore della perdita dei figli uccisi nelle rispettive guerre, sono un esempio di parole di pace.
E allora ecco il nostro Festival: che cerca le parole giuste. Lo facciamo con oltre sessanta eventi (convegni, spettacoli, tavole rotonde, concerti, performance, film e altro ancora) diffusi su tutta la città e distesi su un arco di oltre venti giorni. Sono coinvolte oltre cinquanta realtà, tra associazioni, fondazioni, università, enti religiosi e progetti sociali: non c’è un “centro” unico che pensa per tutti ma un’intelligenza collettiva che genera occasioni per tutti. Anche il metodo conta.
Quest’anno al centro della riflessione c’è l’Africa. Cosa che ci costringe a riflettere sul nostro passato ma anche sul nostro presente. Il colonialismo e il neocolonialismo, le migrazioni, le risorse naturali e il sistema economico. Molte cose. Dovremmo citare anche le primavere arabe, il petrolio e il gas, le oscure manovre internazionali: Giulio Regeni, Ilaria Alpi, il genocidio del Ruanda del 1994. L’Africa porta con sé tante situazioni. Non potevamo ovviamente portarle tutte. E soprattutto non vogliamo portare solo uno sguardo negativo: ma anche uno sguardo positivo, perché l’Africa è un continente pieno di giovani e i giovani sono la speranza incarnata di futuro.
Dobbiamo allora provare a leggere alcuni eventi con l’intelligenza della storia e del futuro. Dobbiamo leggerli anche con le categorie dell’articolo 11 della Costituzione, cioè la giustizia e la pace. Dobbiamo farli risuonare in noi come i suoni del gong, che entrano nel cuore delle persone per aiutarle a costruire la loro personale pace interiore che contribuirà alla pace di tutti.