L’eutanasia si diffonde nella società triste, preda della depressione
Si sono affrettati a dire che la prima vittima minorenne dell’eutanasia non fosse depressa, anzi che ha espresso un consenso pieno e con lei anche i genitori. Davvero? Un adolescente, che non viene ritenuto capace di votare, di sposarsi, di trattare affari economici e persino di gestire la sua sessualità, è davvero così maturo per esprimere una volontà tanto complessa come scegliere di morire?
No. Non è possibile restare indifferenti. E non è
possibile non provare un brivido di fronte al giubilo di qualcuno che in queste
ore celebra il Belgio come un faro di civiltà per aver registrato un (triste,
tristissimo) primato, quello di essere il primo Paese in cui un minorenne ha
subito l’eutanasia. Già, il Belgio, dove un adolescente su 5 pensa al suicidio.
E 1 su 10 lo fa. Dove la prevalenza lifetime della sofferenza mentale è,
insieme ad Olanda e Francia (tutti paesi in cui c’è una qualche legge che consente
forme di eutanasia) la più alta della cosiddetta Europa evoluta: 29% (in
Italia: 18%). Uno studio europeo sul consumo di cocaina in 19 grandi città
colloca l’Italia al nono posto (Milano). E chi c’è al primo posto? Il Belgio
(Anversa), con 2 chili e mezzo al giorno ogni 1000 abitanti! Per la cannabis
stravince l’Olanda (Amsterdam). Sì certo, gli studi che basano la felicità sul
Pil dicono altri dati. Ma questo è il punto: quella specie di felicità, basata
sul Pil e su una presunta sensazione di libertà, è una parodia dell’umano. E
guarda caso, dove il Pil è alto, anche
la sofferenza mentale lo è. E puntualmente fa capolino l’eutanasia.
Si sono affrettati a dire che la prima vittima minorenne
dell’eutanasia non fosse depressa, anzi che ha espresso un consenso pieno e con
lei anche i genitori. Davvero? Un adolescente, che non viene ritenuto capace di
votare, di sposarsi, di trattare affari economici e persino di gestire la sua
sessualità, è davvero così maturo per esprimere una volontà tanto complessa come
scegliere di morire? E davvero un adolescente (e i suoi genitori) provato da
una malattia devastante può essere sereno, di buon umore, certamente non
depresso, come si sono catapultati a sostenere? E ucciderlo è davvero l’unico
modo per consentirgli una morte dignitosa, come se le cure palliative e la
gestione medica del dolore non fossero efficaci? Io mi sento di rispondere no: non credo alla libera e autentica scelta da
parte di persone così duramente provate e vulnerabili.
Credo che la risposta dignitosa sia un’altra: non lasciare soli chi si trova in queste drammatiche vicende. Le scelte eutanasiche rispondono a logiche di depressione, di disperazione, di solitudine. E a logiche economiche. Forse le logiche economiche sfruttano la disperazione: stiamo creando le premesse per una società dove non ci sarà posto, per esempio, per le persone affette da Alzheimer (come accade appunto in Belgio ed Olanda), persone la cui mente è abitata da una straniera bizzarra, la demenza, davvero gli ultimi degli ultimi, indifesi e economicamente inutili (oltre che costosi). L’eutanasia è lo specchio di una società triste, dove la depressione (così recita l’Oms) sarà la principale causa di invalidità entro 3-4 anni.
E infine: non credo che la sofferenza sia di per sé priva
di senso e di significato. Ho visto nelle agonie ricomporsi relazioni
autentiche e sperimentare momenti di intensa vicinanza, di riscoperta
dell’altro e di amore. Ho visto, anche per esperienza personale, oltre che
professionale, persone con Alzheimer provare momenti di rinnovata felicità. Ho
visto famiglie riscoprire l’autenticità attraverso il dramma. Ho visto persone
morire con una dignità autentica e solenne. Dico che a questo dovremmo guardare
e tendere, a questo morire dignitoso, rispettoso della persona, piuttosto che
colludere con la costruzione di una società mortifera. Non è scontato e
nient’affatto semplice, ma in definitiva credo che per dire di no ad ogni forma
di eutanasia, occorra riscoprire il senso e il significato della sofferenza.