Il pensiero mite
Un tempo i genitori consigliavano ai propri figli di ascoltare le parole dei loro insegnanti: era l’epoca in cui si andava a scuola per imparare, accompagnati dall’umiltà che derivava dal rispetto verso l’istituzione e le persone che dovevano occuparsi dei nostri apprendimenti ma soprattutto della nostra buona educazione.
C’era una condivisione di fondo sul compito da realizzare e quel suggerimento sembrava soprattutto una conseguenza ovvia rispetto all’ordine delle cose: c’era chi insegnava e c’era chi imparava.
Poi – sembra facile e riduttivo semplificare in modo sbrigativo quel pò di sconquasso etico e sociale che c’è stato in questi lunghi anni di rovesciamento e confusione di ruoli – tutto a poco a poco è diventato difficile, complesso, ingarbugliato.
Curando e dettagliando i particolari, sfumando le identità e ribaltando i ruoli si è perso di vista lo sfondo, si è problematizzata la realtà, si sono cercati alibi e attenuanti, tutele e diritti, qualcuno è sembrato un po’ troppo in alto e qualcun altro un po’ troppo in basso: bisognava correggere, equilibrare, compensare, sostenere, proteggere.
Adesso è più facile che un padre e una madre raccomandino al proprio figlio: “Fatti valere!”, “Non farti mettere i piedi addosso da nessuno”, “Se qualcuno ti dice qualcosa, rispondi!” e via dicendo.
Tanto vale per la scuola quanto vale per la vita.
La percezione è questa: già in casa le cose non vanno un gran che, riesce difficile creare e mantenere un clima di pacifica coesistenza, un’armonia, un’identità, conservare una nicchia di confidenziale complicità e di intima condivisione.
Figuriamoci fuori.
Ogni mattina usciamo corazzati di tutto punto per difenderci e armati quel che basta per aggredire, sapendo che qualcuno prima o poi ci attaccherà.
Vale proprio la metafora della lancia e dello scudo.
Mi è capitato per professione ma anche per scelta, per intenzionale disponibilità all’ascolto, di raccogliere sentimenti, confessioni, sfoghi, turbamenti, emozioni, ansie, timori della gente: genitori, ragazzi, educatori, operatori sociali o semplicemente dei vicini di casa.
C’è un disagio emotivo forte, un disorientamento che deriva dalla concomitanza di molti fattori.
La sfiducia nelle istituzioni, innanzitutto: inutile affondare il coltello in una piaga aperta.
Il senso di insicurezza personale, che si manifesta con una crescente incapacità strutturale – sul piano caratteriologico, emotivo e mentale – di affrontare le difficoltà della vita e la complessità delle relazioni con gli altri e poi il senso di insicurezza sociale, che avvertiamo vivendo in un mondo sovraesposto ai pericoli della violenza e della sopraffazione.
La solitudine, che ci sorprende ogni volta che cerchiamo un incoraggiamento e che si impadronisce di noi a margine dell’ennesima delusione.
Cerco una definizione che spieghi lo stato d’animo oggi prevalente nel sentire comune e la trovo nel dizionario alla voce timore: “sentimento di ansia, di sgomento, di incertezza che si prova davanti a un pericolo o a un danno vero o supposto”.
Provo a rintracciare nella mente e nell’anima, per la sensibilità che a ciascuno di noi deriva dagli apprendimenti di ogni esperienza, una possibile via d’uscita a questa angoscia così diffusa e condivisa.
Azzardo una risposta che ritengo convincente, a condizione che non sia legata ad un obbligo degli altri e non nostro: mitezza, che traduco con pazienza, indulgenza, moderazione, temperanza.
In un mondo di ragioni urlate e di chiassose, ostentate rivendicazioni la mitezza può essere la vera virtù dei forti.
Il pensiero mite a volte è un dono, altre volte è una conquista che consiste nell’espressione della propria identità e delle proprie idee attraverso il dialogo e che deriva dalla capacità di esercitare il dominio di sé nel rispetto degli altri.