Il Paese dei bonus senza controllo
Ci sono almeno tre dati che gli opinionisti dei talk-show televisivi (così frizzanti se comparati alle vecchie, noiose tribune politiche) dovrebbero sempre tenere presenti mentre discettano del “particulare” dell’oggi:
i 68 governi in 76 anni di repubblica, la bulimia legislativa generata dal desiderio del governo di turno di ricominciare tutto da capo, come in una sorta di gioco dell’anno zero, e infine la smania di protagonismo dei ministri di lasciare un ricordo del proprio passaggio. Questo è il dato più soggettivo ma non certo il meno influente sui deludenti risultati che si riassumono in alcuni indici eloquenti: il debito pubblico irreversibile, l’evasione fiscale irrefrenabile, la stagnazione economica, l’inflazione in crescita, la decadenza del ceto medio, la precarizzazione del lavoro, la fuga dei cervelli e dei pensionati all’estero, compensata da una immigrazione che – absit iniuria verbis – produce molti problemi di gestione e un diffuso disagio sociale. Un minestrone rancido di problemi rimescolato in casa e maldigerito dall’Europa, di cui siamo sempre osservati speciali. Da alcuni anni ci si preoccupa più di elargire contentini simbolici piuttosto che immaginare modelli organici di ripresa e sviluppo, attraverso riforme radicali sempre rinviate e giocando sulla sponda dei decimali sperando che producano miracolosi effetti moltiplicatori. E’ la politica dei bonus, delle mance, dei condoni, delle milleproroghe, e delle elargizioni mirate che avrebbe l’ambizione di compensare deficit di status e riappianare la distribuzione delle risorse. Anche in questa fase che precede la legge di bilancio se ne parla, ma nel caleidoscopio dei provvedimenti ipotizzati c’è più retorica che sostanza: una storia di lunga deriva che mi ricorda un aneddoto personale. Nei primi anni 90 (del dopo tangentopoli) incontrai un vecchio amico che di lì a breve avrebbe assunto un importante incarico in uno dei tanti governi del cambiamento e della rinascita. L’occasione fu casuale: allora vivevo a Genova e ci trovammo per una cena a base di pesce e farinata. Fu in quella circostanza che mi rivelò una profezia che si è poi avverata puntualmente: “Il problema degli anni a venire sarà come mettere nel modo più scaltro le mani nelle tasche degli italiani”.
Il progetto si è realizzato e pare indirizzato verso un demagogico livellamento sociale: per far ripartire l’ascensore della crescita, fermo al piano terra e con le ragnatele e per alzare i redditi bassi si è finito per imbastire la più pesante e punitiva campagna di annientamento della borghesia e del ceto medio produttivo: si va dai dipendenti pubblici a reddito fisso – li chiamerei “bancomat umani” – agli imprenditori che tentano di spiccare il volo ma sono frenati dalla palla al piede di una burocrazia bizantina, ai pensionati perennemente sotto la lente di ingrandimento del fisco che li considera imputati sì, proprio loro, dopo 40 e più anni di lavoro, di privilegi inaccettabili. Colpa della politica birbona e disonesta che ha stabilito certe tassonomie sulle pensioni d’oro, nella quale rientrano praticamente tutti, eccetto coloro che vivono alle soglie della povertà.
Povertà che – da un provvedimento all’altro – anziché regredire alza l’asticella dei numeri: siamo a 1,9 milioni di famiglie e 5.6 milioni di persone, secondo il recente Rapporto della Caritas.
Ed ecco che le politiche compensative per redistribuire i redditi e spezzare il gap tra ricchi e poveri (e qui ci vorrebbe il virgolettato) riesumano logiche corporative per status, età e professioni: l’Italia è un Paese di culle vuote? Ecco subito il bonus bebè, da protrarsi fino ai 18 anni. I giovani non studiano e non lavorano, non leggono e passano ore in discoteca o a farsi i selfie? Pronto un bonus speciale per loro: toglierlo diventa peccato di lesa maestà. La scuola lascia a desiderare perché i docenti sono demotivati? Da anni li si incentiva con un bonus di 500 euro annuali, spendibile per libri, computer o spettacoli teatrali. Il superbonus edilizio del 110% è costato 38 miliardi e il Ministro Giorgetti ha ammesso: “Non ho mai visto una norma che è costata così tanto per così pochi”. Questa vicenda dei bonus era cominciata con i famosi 80 euro, in larga parte poi recuperati in sede di dichiarazione dei redditi. Ricordo una deputata (poi promossa europarlamentare) che si era presentata in TV con uno scontrino chilometrico per dimostrare che 80 euro di spesa risolvevano tanti, ma proprio tanti problemi delle famiglie a reddito medio-basso. Il capolavoro del teorema della resurrezione dei senza lavoro attraverso la dazione di denaro pubblico è poi arrivato con il reddito di cittadinanza: il fallimento di questa dazione ingloba sia i navigator che i naviganti, cioè coloro che ne beneficiano in media ben al disotto degli ipotizzati 780 euro e solitamente in modo del tutto svincolato da un lavoro se pur a termine. Se ne sta parlando ma un nuovo modello di welfare è ancora aleatorio e suscettibile di agevolazioni in itinere: parliamoci chiaro questa materia produce evidenti ricadute elettorali. Tutto questo dimostra che la politica dei bonus a pioggia non funziona e finisce per creare nuove sacche di ingiustizie sociali o per diventare una forma legiferata di spreco del denaro pubblico.
In secondo luogo evidenzia l’incapacità della politica di elaborare riforme e misure lungimiranti di medio –lungo periodo capaci di ipotizzare modelli sociali sostenibili, attuando una politica di redistribuzione dei redditi che non produca solo omologazioni verso il basso.
Ma il dato più eclatante riguarda la totale assenza di meccanismi di controllo sull’utilizzo dei bonus: si allarga sempre la pletora delle deroghe e dei rinvii.
Un vulnus normativo grave, considerato che si tratta di denaro pubblico.
Basterebbe legiferare una organica politica dei controlli per accertare quale via di spesa e di utilizzo hanno preso i bonus elargiti, una verifica a posteriori con tanto di documentazione da esibire.
Ma la cosa più grave è che di controllo se ne parla malvolentieri: come se applicare le regola del “buon padre di famiglia” nella gestione delle finanze pubbliche fosse una sorta di fastidiosa e indebita intromissione e non un dovere morale da assumere.