Il mio corpo, la mia scelta?
All’inizio di marzo la Francia ha votato per inserire nella sua Costituzione il diritto all’aborto, sia pure nella forma indiretta della garanzia della libertà della donna di interrompere la gravidanza. Di questa modifica costituzionale non c’era bisogno, non solo perché in Francia era già possibile abortire, ma per un motivo più profondo. Le costituzioni democratiche, infatti, si basano sul principio della difesa dell’innocente e sul riconoscimento più esteso possibile della dignità dell’esistere di ogni essere umano – questo il motivo, per cui, anche nel nostro ordinamento, l’aborto non dovrebbe mai essere inteso come un diritto, restando invece un illecito che viene depenalizzato a certe precise condizioni.
Il mio corpo, la mia scelta. Ora, questa ingiustificata e ingiustificabile trasformazione in senso tanatologico della Costituzione francese è stata salutata da una folla che si è riversata orgogliosa e festante davanti a una Tour Eiffel magnificamente illuminata nel buio della notte con la scritta #MoncorpsMonchoix. Ed è proprio su questo slogan – “il mio corpo, la mia scelta” – che vale la pena proporre qualche riflessione.
L’incomprensione di fondo. L’idea che il corpo ci appartenga e che le scelte siano una nostra proprietà privata è, infatti, ormai un sentire comune che pare non poter incontrare nessuna obiezione. Eppure, in questa comprensione, ormai così scontata da diventare uno slogan quasi pubblicitario, perfetto per essere speso nella temporalità senza-pensieri dei social network, si annida un’incomprensione di fondo della nostra esperienza destinata ad avvelenarla. Per capirlo, basta partire dal linguaggio. Noi usiamo, infatti, abitualmente frasi come “la mia casa”, “la mia macchina”, “la mia fidanzata”, “il mio amico”.
L’Apostolo Tommaso – che aveva affermato di non poter credere nella risurrezione di Gesù sino a quando non avesse messo le mani nel suo costato – quando finalmente si trova davanti il Risorto, si precipita d’un fiato a dire uno dei riconoscimenti più potenti di tutto il Vangelo: “Mio Signore e mio Dio”, e questo, circostanza interessante dal punto di vista psicologico, senza aver nemmeno toccato di fatto quelle ferite.
In tutti i casi che abbiamo visto, comunque, compare sempre questa strana forma possessiva “mio/a”; nondimeno, per quanto essa resti sempre identica sul piano formale, di fatto si riferisce a realtà tra loro molto diverse.
Riconoscere il legame. E il punto è proprio questo, perché un figlio, una persona amata, il corpo, Dio stesso, non sono “miei” nello stesso senso di un bene che possiamo comprare, pagare in una sola volta oppure a rate, vendere o donare. In tutti questi casi dire “mio” non è indicare una proprietà, ma riconoscere un legame, nella forma di una relazione intrisa di sostanzialità, in cui la gratitudine continuamente alimenta e sostiene la responsabilità ed è da essa continuamente sostenuta e alimentata. Sono esperienze possibili che hanno a che fare con quella bellezza e fioritura della vita umana che viene di fatto annullata se ad affermarsi – al punto da divenire scontata come uno slogan che nessuno si sente di mettere in discussione – è una logica proprietaria che finisce inevitabilmente per annullare la libertà dell’altro, figli inclusi.
Le nostre scelte. Ma anche le “nostre” scelte non sono solo nostre: infatti, impattano sulla vita degli altri, la cambiano, a volte arricchendola, a volte rovinandola. Certo, siamo noi gli autori delle nostre scelte, ma non lo siamo della storia cui esse danno avvio, che viene consegnata alla pluralità degli agenti. Di tutto questo, però, sembra essersi dimenticato un mondo che considera non solo il corpo e lo scegliere come una proprietà, ma anche i figli, di cui si può disporre alla stregua di un prodotto di consumo, nel senso più esteso del termine.